"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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venerdì 28 gennaio 2011

Giornata della memoria … ancje par Bordan

Riemergono faticosamente le storie dalla deportazione, anche quelle di vicende individuali che hanno avuto origine dalla Valle del Lago. Ultima, quella di "Rino di Cian" di Bordano che, forse, verrà raccolta in una pubblicazione.



«Io, nell’inferno di Buchenwald»

Bordano-Buchenwald: un viaggio di andata e ritorno nell’inferno dei lager. Tra gli ex-internati friulani sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, e premiati nel corso della cerimonia tenutasi lo scorso 13 novembre in prefettura, c’è anche un bordanese, da anni ormai residente a Tavagnacco: Rino Picco, 84 anni, detto di Cian. La sua è una storia come tante altre, legata a doppio filo con quella del suo paese d’origine. Tant’è vero che il Comune di Bordano, in collaborazione con la Pro Loco del paese, ha ora in progetto di dare alle stampe un libro che raccolga le memorie del suo concittadino e dei suoi compagni. 
Rino con alle spalle una lunghissima esperienza come migrante, vive ormai da tempo gli ultimi anni della sua vita ad Adegliacco, circondato dall’affetto della sua amata Vilma e della loro numerosa famiglia. Ma per Rino il suo calvario come prigioniero dei tedeschi è un incubo che ritorna spesso. 
Tutto comincia il 19 luglio del 1944, quando all’indomani di un attentato partigiano, i nazisti, per rappresaglia, decisero di mettere a ferro e fuoco Bordano. Rino venne fatto prigioniero e condotto, assieme ai suoi compagni di sventura, prima nelle carceri di Udine e poi caricato su una tradotta ferroviaria con destinazione Buchenwald. «Una volta scesi dal treno - racconta oggi Rino - ci radunarono in un grande piazzale dove rimanemmo sotto il sole battente per tutta la giornata, senza nè cibo e nè acqua. Sfiniti, quasi a sera, ci portarono in un capannone di una fabbrica. «Qui - ricorda l’uomo - ci raparono a zero. Poi, il giorno seguente, a gruppetti di 3 per volta, ci fecero sedere sul bordo di una grande vasca contenente dell’acqua torbida, come quella che scende quando il Tagliamento è in piena. Uno alla volta, un tedesco ci colpì sul petto con il calcio del fucile facendoci cadere all’indietro dentro questa vasca». «Il giorno dopo - spiega con precisione, come se questi fatti fossero accaduti solo poco tempo - molto miei compagni e amici erano quasi ciechi, mentre io provavo un dolore indescrivibile, sotto le ascelle e alle parti basse, tanto da non riuscire a camminare». 
Rino non ha dimenticato un solo istante di quell’inferno. «Dopo questo trattamento - continua - ci consegnarono la divisa a strisce con una “I” inserita all’interno di un triangolo rosso cucito sul petto. Dopodichè ci fecero una puntura con una siringa sul petto. Siringa che veniva utilizzata per ben sei uomini, senza mai cambiarne l’ago. In un primo momento io e i miei compaesani fummo destinati al blocco 43. I blocchi contenevano all’incirca 100 persone l’uno, divisi in due piani distinti».
«Nel blocco 43 non c’erano letti sui quali dormire e si doveva passare la notte stesi sul pavimento. A pochi centimetri dal mio giaciglio, correva addirittura una canaletta dell’acqua, dove le persone venivano a fare i propri bisogni».
In uno di questi primi giorni a Buchenwald il gruppetto di Bordano venne diviso. Mentre suo cugino Gino e gli altri due furono inviati in una miniera di sale a chilometri e chilometri di distanza dal lager (nella quale purtroppo trovarono la morte), Rino e gli altri due compagni di sventura vennero destinati alle docce. Una svolta quasi “fortunata” per il gruppetto.
La principessa. «Alle 11 del mattino del 24 agosto del 1944 - narra Rino - gli aerei anglo americani bombardarono il campo. Ed è proprio in quest’occasione che vidi coi miei occhi la principessa Mafalda di Savoia. Me la ricordo ancora seduta con il gomito appoggiato su un tavolino, e con la mano sorreggeva la testa. Mentre il viso e le vesti erano tutte impregnate di sangue. Da quanto seppi più tardi morì a distanza di qualche giorno».
«Il giorno dopo il bombardamento - continua il racconto - io e il mio amico Elio fummo mandati a riparare il selciato che portava alla zona dei forni crematori, danneggiato dalle bombe. E mentre eravamo impegnati in questo lavoro vedemmo passare, per tutto l’arco della giornata, carrelli con morti o feriti, che entravano e uscivano nella zona del forno». «Erano vagoni che si muovevano su rotaie come quelli che si vedono nelle miniere - spiega Rino -. Entravano pieni di morti o di feriti, a causa del bombardamento, e uscivano vuoti dall’altra parte opposta dell’impianto. Dalla ciminiera del forno uscivano le fiamme alte oltre quattro metri dal camino, e si respirava un odore di carne umana bruciata irrespirabile. Ed Elio continuava a ripetere che anche noi saremmo finiti su quel carretto». 
Il calvario. Per fortuna, Rino e il resto del gruppo dei sopravvissuti non rimase ancora a lungo a Buchenwald. Il 29 agosto furono trasferiti, con un altro folto gruppo di internati, nel campo di concentramento di Vitem, nei pressi della città di Dortmund. Era una grossa officina meccanica dove si producevano carri armati. Lavoravano 12 ore al giorno, con turni a rotazione, una settimana a turno giornaliero e un’altra in quello notturno. «Il pranzo era sempre scarso e a noi italiani non davano mai il bis». «A causa dei morsi della fame - racconta Rino - andavo a rovistare nella melma tra gli scarti della cucina che venivano buttati nelle vicinanze delle latrine. Dovevo contendere le bucce delle patate con le lumache».
Rino e i suoi amici videro più volte in faccia la morte altre volte. «Erano i primi d’aprile del 1945 quando le SS, in piena fase di smobilitazione, ci fecero incolonnare in file da quattro e ci portarono ad una quarantina di chilometri dal campo». 
Quella era una delle famigerate “marce della morte”. «Durante il tragitto - ricordato l’uomo - vedevamo già sventolare sui tetti delle case le bandiere bianche in segno di resa. Era per noi un buon segno, una speranza. Alcuni prigionieri russi, dotati di una forza sovrumana, decisero di approfittare della nostra momentanea superiorità numerica, andando ad assalire le guardie, uccidendole tutte con la sola forza delle loro mani. Eravamo finalmente tutti liberi!». 
Stefano Felcher 

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