"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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lunedì 16 dicembre 2019

28 ottobre 1917, quando saltò in aria il ponte di Braulins

E' stato presentato prima a Gemona e poi a Ragogna il libro di Marco Pascoli "La battaglia del Gemonese", dove vengono ricostruite in maniera approfondita anche le vicende della Valle del Lago dopo la rotta di Caporetto.

Dalla recensione del MV, la parte dedicata al brillamento del ponte di Braulins  attivato dall'esercito italiano per rallentare l'avanzata degli austroungarici.

Quell’ordine sofferto arrivato nella notte di sacrificare il ponte di Braulins


La sorte del ponte di Braulins venne affidata al colonnello Aurelio Petracchi. Era lui che doveva decidere quando farlo saltare per fermare austriaci e tedeschi, che avevano sfondato le nostre linee a seguito di quell’immensa offensiva che si era concentrata su Caporetto. Gemonese e Val Resia, trovandosi lungo l’asse di minor distanza tra Isonzo e Tagliamento, divennero lo scenario fondamentale in cui i nostri potevano organizzare un’azione di contenimento. Petracchi era lì, dal primo pomeriggio del 28 ottobre 1917, e guardava le migliaia di militari in ritirata e di profughi in fuga, che cercavano la salvezza sull’altra sponda del Tagliamento, da dove scappare poi verso il Veneto.

Non era una decisione facile, anche perché quel ponte era già un simbolo per la gente di tutto il Friuli. Era il ponte più famoso, come ha continuato a esserlo fino ai giorni nostri, grazie alla tradizione e alla villotta che lo celebra e lo canta. Era stato inaugurato un anno prima, dopo una faticosa e costosa costruzione: 17 arcate imponenti, 400 metri di lunghezza provvidenziali nell’unire i territori di Gemona e Trasaghis.

Alla fine il colonnello dovette dare il fatidico ordine. Era la notte del 29 ottobre, illuminata da una fredda luna splendente dopo tante ore di pioggia. Le mine fecero saltare un centinaio di metri un attimo prima che arrivasse il nemico, ma non tutti i soldati italiani riuscirono ad attraversarlo in tempo. C’erano reparti isolati e alcuni tentarono di guadare ugualmente il fiume in piena finendo travolti dalla corrente tumultuosa. (...) 

(Messaggero Veneto, 14 dicembre 2019)






giovedì 21 novembre 2019

Venerdì la presentazione del libro sulle battaglie del Gemonese ed il brillamento del ponte di Braulins nel 1917

Venerdì, 22 novembre alle ore 18.00

 nella Sala convegni dell’UTI del Gemonese, via C. Caneva n. 25, Gemona del Friuli 

avrà luogo la 
Presentazione del libro

LA BATTAGLIA DEL GEMONESE
Dalla Val Venzonassa a Sella Foredôr, da Flaipano al Ponte di Braulins
27 - 30 ottobre 1917
del dott. Marco Pascoli

Programma:

Saluto del Presidente dell’UTI del Gemonese, Claudio Sandruvi
Interverranno:
-          Aldo Daici, già Presidente dell’UTI del Gemonese
-          Luca Leonarduzzi, UTI del Gemonese
-          Marco Pascoli, autore del libro, ricercatore storico sul tema della Prima Guerra Mondiale
Seguirà dibattito.  


Il libro ricostruisce le giornate febbrili seguite alla rotta di Caporetto nel 1917 analizzando gli scontri e le azioni belliche nel Gemonese; particolare attenzione viene riservata alla ritirata dell'esercito italiano lungo il ponte di Braulins ed il successivo brillamento di alcune arcate del ponte per rallentare l'avanzata austroungarica.

lunedì 7 ottobre 2019

Latteria di Cavazzo, materiali e memorie da preservare

Il desiderio di trasmettere ai giovani le memorie del passato che riguardano il nostro paese è la ragione che ha spinto il cjavacin Franco Michelli  a dedicare parte del suo tempo alle ricerche negli archivi comunali e tra i documenti della Latteria. Michelli ritiene che "vedere appeso all’ingresso del fabbricato ex latteria l'insegna  “MOSTRA PERMANENTE DELLA LATTERIA DI CAVAZZO CARNICO”, sarebbe stata la naturale conclusione delle lunghe ricerche di archivio. Al momento questo sogno non si è realizzato. Rimane però la  speranza che tanti altri condividano e sottoscrivano questo appello".  

Questo il testo della lettera aperta diffusa:   

LETTERA APERTA AI CITTADINI
Oggetto: dare dignitosa sistemazione alle attrezzature ed alla documentazione della Latteria Sociale nei locali della stessa, al pianterreno.
         Agli inizi del ‘900 gli abitanti della Carnia diedero vita alle prime esperienze  di Latterie Sociali che si diffusero in seguito nel resto del Friuli. Anche a Cavazzo, Cesclans, Mena e Somplago furono istituite le rispettive latterie che per tanti anni rappresentarono l’elemento di aggregazione attorno al quale ruotava  tanta parte della vita sociale  ed economica dei paesi. A Cavazzo la Società Cooperativa “Latteria Sociale” fu fondata nel 1905 e in seguito con il contributo economico e lavorativo dei soci fu costruito l’attuale edificio da adibire non solo alla lavorazione del latte.  Per circa 70 anni la Latteria  è stata un organo vitale del paese, indispensabile per la vita e la sopravvivenza delle famiglie. Dopo il terremoto del 1976 l’edificio latteria del capoluogo fu ristrutturato  e perse la sua funzione di caseificio. Alcune attrezzature furono collocate nella cantina, altre in una stanza della ex scuola elementare assieme all’archivio documentale. Gli edifici delle latterie delle frazioni, invece, furono demoliti  e con loro dispersi gran parte dei documenti. La documentazione  della Latteria di Cavazzo ci offre la testimonianza  della storia civile di questo paese  durante i momenti più drammatici per la popolazione: la Grande Guerra, il terremoto del 1928, l’occupazione dei Cosacchi e la Seconda Guerra Mondiale. Tali documenti ed attrezzature sono stati riportati alla luce in una mostra nel 2016 e poi collocati in una stanza dell’edificio della latteria  in attesa della risposta dell’Amministrazione Comunale alla richiesta di sistemarli al pianoterra come esposizione permanente.  
Poco tempo fa non solo non è arrivato il permesso tanto atteso, ma la stanza è stata sgomberata per far posto ad una mostra fotografica sul campo di volo militare operante nella nostra piana  da febbraio 1916 a novembre 1917. Interrogata a questo proposito, l’Amministrazione Comunale  ha chiarito che non intende concedere spazio nell’ex latteria alla mostra sul lavoro caseario, alle sue attrezzature ed ai suoi documenti con la motivazione che l’edificio dovrà essere ristrutturato. Nel frattempo però rimangono in sede la mostra fotografica e quella sul Forte di Monte Festa allestite e gestite a cura di un’associazione di Osoppo.
In tanti paesi, anche piccoli, della Carnia e del Friuli si preservano e si valorizzano gelosamente i ricordi ed i documenti del passato. Vedasi ad esempio le latterie di Avasinis, di Cleulis e di Dogna. Invece nel caso della latteria di Cavazzo, nonostante  i documenti, le foto, gli attestati delle premiazioni e le attrezzature siano veramente importanti e preziosi, sembra quasi che si voglia rimuovere la memoria e la storia civile della comunità, che sono ben più articolate e vaste delle memorie della Grande Guerra che attualmente occupano buona parte degli spazi dell’edificio ex latteria.
Ricordo che gli ottantasei  capifamiglia di Cavazzo fondatori della Latteria Sociale corrispondevano alle famiglie dei Puppini, Brunetti, Macuglia, Stroili, Michelli, Zanini, Gollino, Danna, Lestuzzi, Angeli, Chiautta, Monai, Macutan, Squecco, Cappello, Coidessa, Collavizza, Colomba, Della Schiava.  Ora alcuni loro giovani discendenti siedono in Consiglio Comunale e se amano il loro paese, dovrebbero adoperarsi affinché i ricordi dei loro nonni  e parte della loro storia e della loro identità siano custoditi nell’edificio che con tanti sacrifici i loro avi costruirono pensando anche al futuro.
A loro, ai cittadini del Comune di Cavazzo Carnico, a coloro che originari di questi paesi vivono lontano, ma anche a tutti quelli che amano la Carnia e vogliono salvaguardare le radici dell'identità di questa terra,
CHIEDO
di sottoscrivere una Petizione al Sindaco ( come prevista all'art.34 dello Statuto Comunale) affinché, anche in ottemperanza del disposto dello Statuto Comunale che all’art. 2 comma 3c  prevede “il recupero, la tutela e la valorizzazione delle risorse naturali, ambientali, storiche, culturali e delle tradizioni locali”,  acconsenta a dare dignitosa sistemazione alle attrezzature e all’archivio documentale  della Latteria Sociale mettendo a disposizione un adeguato locale al pianoterra dell’unico edificio dove hanno il “diritto morale” di essere conservati: la ex Latteria Sociale.
                                     Franco Michelli, cittadino di Cavazzo Carnico


Da questi elementi è stato formulato il testo di una petizione che può essere sottoscritta presso: Edicola di Macuglia Rossella, Pizzeria News Genzianella, Trattoria Borgo Poscolle, Bar al Fòr, Albergo Olivo, Alimentari Stroili Silvio , Farmacia dott. Russo Riccardo,  Bar Rosso di Sera.
 

mercoledì 8 maggio 2019

Sabato 18 sul Brancot sulle tracce della Grande Guerra

ATTENZIONE: l'uscita prevista per sabato 11 è stata RIMANDATA A SABATO 18 MAGGIO


L'Uti del Gemonese organizza per sabato 18 una escursione sul monte Brancot per osservare le tracce relative a insediamenti militari allestiti durante la Grande Guerra (in particolare i trinceramenti, la casermetta e le posizioni d'artiglieria).
L'escursione sarà guidata dallo storico Marco Pascoli.
La partecipazione è gratuita.
Ritrovo a Braulins (parcheggio presso il Piç) alle 9.



domenica 4 novembre 2018

4 novembre 1918, la fine della Grande Guerra nella Valle del Lago

Dopo le pagine dedicate alla situazione della Valle del Lago nei giorni seguenti a Caporetto, è doveroso produrre una pagina simile dedicata alla fine della Grande Guerra che, anche nella Valle del Lago, si concluse il 4 novembre di cent'anni fa.



L'occupazione austroungarica si concluse, dopo un anno, con la controffensiva Italiana. Il 4 novembre del 1918 entrò in vigore l’armistizio tra Regno d’Italia e Impero Austro Ungarico.


In quelle ore, però, la Valle del Lago era ancora percorsa dalle truppe austro tedesche in ritirata e dalle avanzanti truppe italiane. A Somplago ricordavano: “Quando, un anno dopo i Tedeschi furono sconfitti sul Piave, nei nostri paesi riapparvero i soldati sbandati, feriti, sporchi, affamati; erano i soldati Tedeschi che fuggivano verso le loro terre. Ancora una volta i nostri paesi furono depredati”. Fu una fase tumultuosa di soldati in ritirata che, tra l’altro,impossibilitati a portarlo con sé, ma non volendo farlo arrivare in mani nemiche, provvidero a scaricare nel lago anche una ingente quantità di materiale bellico.

Dopo il transito degli austriaci in ritirata, gli abitanti di Somplago provvidero a recuperare una campana che era stata nascosta per evitarle il sequestro dell’occupante: essa fu riportata in paese e issata sul campanile dove è visibile ancora oggi,

Il 4 novembre 1918 anche nel comune di Trasaghis arrivarono le prime truppe Italiane in avanscoperta: i bersaglieri e la cavalleria.

Sono state raccolte le testimonianze di alcuni anziani che ricordavano ancora l'euforia di quel momento. Così Amalia Zilli: "Per primi sono arrivati i bersaglieri: sono arrivati in piazza e 4-5 donne hanno provveduto subito a fare delle polente e a portarle in piazza per loro. I bersaglieri ne prendevano una porzione, ringraziavano e poi continuavano la loro marcia verso Somplago".

Questo invece il racconto di Guido Stefanutti: “Quando è finita la guerra, ero sulle montagne di Val. Ho sentito una donna che gridava: «A son tornâts i talians, a son i bersaglîrs!». Dall’eccitazione, siamo scesi giù dalla montagna scalzi, per andare a vedere i soldati italiani arrivare!”.

Uguali sentimenti di gioia traspaiono dal diario di Antonio Franzil: “Il giorno 4 novembre alle ore 11 sono entrate in paese le truppe motorizzate italiane ed io ebbi immediatamente a issare il tricolore su una altissima pianta di pioppo di fronte all’abitazione, alcuni ufficiali si fermarono e mi fecero un cordialissimo applauso, regalandomi alcuni pacchetti di sigarette. La sera stessa dal comando militare italiano vennero distribuiti dei viveri a tutta la popolazione”

Anche il curato di Avasinis, prè Michieli, dopo vere annotato sul suo diario le vicende dolorose dell’occupazione, poté finalmente raccontare la gioia della conclusione della guerra con l’arrivo delle truppe italiane: “Vedo una <moto farer> percorrere a volo la via della palude e fermarsi al crocicchio del molino diritto di là del Tai. Poi giunto, si ferma, ne scende un individuo, parla con dei paesani e si ferma incerto. Poco dopo vedo una turba di ciclisti che muovono a quella volta e si fermano pure al crocicchio! Chi sono, chi non sono? È una novità interessantissima.

I tedeschi non costumano quei <moto farer> e <sidecar> e tante ciclette. Ma chi sono? Mi sporgo su una rupe a strapiombo in Cornolêt, acquisto la vista ed … oh, scoperta! Sono nientemeno che l’avanguardia italiana!!

Mi rizzo in piè sullo strapiombo, alo le braccia al cielo e grido con quanta voce ho in gola: Evviva l’Italia e giù a precipizio a portare la bella nuova in paese. Sono venuti gli italiani: li ho veduti io stesso. Allegri. Sono qua. Vado ad incontrarli. E di fatto vado al crocevia ove li saluto…”.

E effettivamente anche altre testimonianze confermano che “I primi soldati Italiani giunti a Somplago furono i bersaglieri in bicicletta”.

Dell’avanzata dei soldati italiani si ha una singolare testimonianza nel romanzo “L’alcova d’acciaio” che il famoso poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti pubblicò nel 1921 per raccontare la propria esperienza da militare nell’ultimo anno di guerra:


A Trasadis [Trasaghis] riceviamo, Bosca ed io, l’ordine di lanciarci soli alla massima velocità verso Tolmezzo prima che il ponte sul Tagliamento sia fatto saltare. La piazza di Alesso è tutta ingombra di bersaglieri ciclisti. Sono uomini e biciclette tutti sdraiati a terra affranti, sfiniti dalla corsa sovramuscolare. Vorrei elogiare cantare i battiti burrascosi di quei cuori giovanili, l’ansare di quei polmoni, il respiro di quelle bocche bruciate e nutrite di polvere e il sudore grondante di quelle facce smaniose. (…)



Entriamo in Somplago come una pugnalata di velocità. Il paesello è come spento, chiuso inchiavardato dal terrore, e cacciato sotto delle coltri di pericolo e di morte. Presto, presto, correre, correre virare, scansare. Quel carretto abbandonato! Quel pietrone! Quel cumulo di ghiaia! Gli ostacoli sono innumerevoli. Agilità anguillesca della mia blindata 74 che sfiora tutto senza agganciare. Io prego, supplico, imploro il motore perché collabori senza posa. Basterebbe un po’ di grasso e un po’ di polvere di più! Ma il motore è fedele, pronto, obbediente e la sua quarta velocità è veramente alata, aerea, come se il vento prestasse alle ruote infiniti trampolini imbottiti di nuvole.



Testimonianze di civili e di soldati, seppur sporadiche, possono darci dunque un’idea del clima di quelle giornate , quando veniva a chiudersi, cent’anni fa, uno dei periodi più duri della storia d’Italia.







                                                                                      Pieri Stefanutti

(Dal Blog del Centro di Documentazione sul Territorio: 

giovedì 7 giugno 2018

Val del Lago sul Web. Da Torino, uno sguardo sul Comune di Trasaghis

Il sito torinese "Italia Star Magazine" ha dedicato una pagina al Comune di Trasaghis, ricordano i fatti principali che lo hanno segnalato "agli onori della cronaca", e talvolta della storia. Nella ricostruzione si citano le battaglie della Grande Guerra, l'eccidio di Avasinis del 1945, la morte di Bottecchia nel 1927 per arrivare alle vicende del terremoto e della ricostruzione.
Alcune parti sono pregevoli, altre riportano notizie che in zona non si sono proprio mai sentite.
La lettura è comunque interessante. Ai lettori, come sempre, l'invito a commentare.
(A&D)
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La misteriosa morte di un campione

 | Ottavio Bottecchia fu il primo italiano a vincere il Tour de France nel 1924. Trovato esanime mentre si allenava sulle strade di casa, morì un paio di settimane dopo, con l’opinione pubblica divisa fra trame di omicidio e semplice incidente







di Marco Belletti

Alesso, Avasinis, Braulins, Oncedis e Peonis sono le frazioni che compongono il Comune di Trasaghis, in provincia di Udine, Friuli Venezia Giulia. Appoggiato sul Tagliamento e ai piedi del monte Brancot, Trasaghis è entrato nella storia italiana in punta di piedi - con alcuni eventi tra la Grande Guerra, il secondo conflitto mondiale e il terremoto del 1976 - che tuttavia lo hanno fortemente segnato.

Il primo con cui Trasaghis entra a far parte della storia nazionale risale al 1917- in piena Prima Guerra Mondiale - quando il generale Antonino Di Giorgio dispose, il 27 ottobre, due Divisioni dell’esercito italiano nei pressi del comune friulano con l’obiettivo di coprire l’eventuale ritirata (decisa il giorno dopo) dei soldati schierati sulla linea di difesa poco più a est del Tagliamento. All’alba del 31 ottobre, l’artiglieria austro-ungarica entrò in azione e poco dopo si mosse la fanteria che costrinse al ritiro gli italiani. Quella stessa notte la “Divisione Bologna” - che difendeva la posizione divenuta ormai indifendibile - avrebbe potuto ritirarsi ma non lo fece: fu accerchiata e distrutta dall’esercito nemico. Nel frattempo, sull’altra riva del Tagliamento, l’artiglieria italiana cannoneggiava le postazioni austro-ungariche (che avevano l’appoggio di forze tedesche), causando la morte di numerosi prigionieri italiani, tra cui alcuni superstiti della Bologna, ai quali era stato concesso l’onore delle armi.

Come conseguenza della battaglia, ricordata con il nome del paese e del monte di Ragogna, il generale Luigi Cadorna ordinò a tutto il Regio Esercito di ripiegare fino al Piave, dove nel frattempo si stava stabilendo la linea difensiva. Fu uno degli ultimi comandi dato da Cadorna in qualità di capo di Stato Maggiore generale prima di essere sostituito dal generale Armando Diaz. Cadorna fu ritenuto responsabile della disfatta, da lui invece attribuita alla scarsa combattività di alcuni reparti. 

Dopo il ritiro sulla riva destra del fiume delle armate italiane e la distruzione dei ponti, dal novembre 1917 il Piave divenne la linea difensiva che le truppe austro-ungariche e tedesche non riuscirono mai a superare stabilmente. Oltre il fiume, la difesa italiana si oppose agli attacchi fino all’ottobre 1918 quando - dopo la battaglia di Vittorio Veneto - gli avversari furono sconfitti e si siglò l’armistizio.

Occhio per occhio

La frazione Avasinis di Trasaghis fu lo scenario di uno degli episodi più dolorosi della Seconda Guerra Mondiale. Il 2 maggio 1945 - quando già da qualche giorno in buona parte dell’Italia si festeggiava la Liberazione - alcuni soldati nazisti in ritirata penetrarono nel paese uccidendo 51 persone, tra cui molte donne, vecchi e bambini. La mattina del giorno prima, forse per individuare il miglior percorso per ritirarsi o forse per debellare la minaccia dei partigiani e garantirsi il ripiegamento, i soldati tedeschi si erano posizionati nei pressi di Avasinis, effettuando anche delle perlustrazioni in paese, cercando di eliminare le postazioni partigiane. Il mattino dopo, suddivisi in alcune squadre (sembra in formazioni composte oltre che da soldati tedeschi, anche da altoatesini, istriani e probabilmente friulani) i nazisti tornarono ad Avasinis e compirono la strage, per poi ritirarsi il 3 maggio.

Nei giorni successivi le squadre partigiane perlustrarono l’area circostante e fermarono una trentina di nazifascisti che - ritenuti responsabili della strage, anche se solo sulla base di deboli indizi - furono uccisi nella piazza centrale di Avasinis. Da allora, la doppia strage a guerra praticamente finita è stato oggetto di un vivace dibattito sia sul comportamento dei nazisti in ritirata, sia su quello dei partigiani, che avrebbero prima in un qualche modo provocato la carneficina e quindi messo in pratica una violenta vendetta.
                                                        
La terra trema

Il 6 maggio 1976, Trasaghis - insieme con numerosi altri comuni dell’alta provincia di Udine - subì uno dei terremoti più violenti della storia italiana, per vastità della zona colpita, per numero di morti e per devastazione. 

La scossa più forte raggiunse una magnitudo 6,5 della scala Richter e i danni furono particolarmente elevati sia per le condizioni del suolo (in zona sono presenti due faglie, e l’epicentro fu localizzato sotto il comune di Gemona), sia per la posizione dei paesi colpiti (quasi tutti in cima ad alture) sia per l’età delle costruzioni. Buona parte delle cittadine distrutte non avevano subito danni durante i due conflitti mondiali e quindi palazzi e case erano in gran parte antecedenti alle guerre e molto vecchi.

Complessivamente, il terremoto - sia nelle scosse di maggio che in quelle di assestamento, andate avanti fino a settembre - colpì un’area di 5.500 chilometri quadrati, con circa 600mila abitanti: i morti furono quasi mille, oltre 100mila gli sfollati, ben 18mila le case distrutte e 75mila quelle danneggiate, con 45 comuni rasi al suolo, 40 gravemente danneggiati e 52 sinistrati. Ingenti i danni, calcolati in oltre 4.500 miliardi di lire, equivalenti oggi a qualcosa come 20 miliardi di euro. La scossa fu distintamente percepita in tutto il centro-nord Italia, in Slovenia e in Austria, e si trattò del terremoto più forte del secolo per l’Italia Settentrionale.

                                                 

Il mistero del ciclista

Il 3 giugno 1927 il ciclista trentatreenne Ottavio Bottecchia fu trovato agonizzante lungo una strada di Peonis, frazione di Trasaghis: ricoverato all’ospedale di Gemona del Friuli, morì dopo 12 giorni di agonia.

Famoso per essere stato il primo ciclista italiano ad avere conquistato il “Tour de France” (nel 1924) Bottecchia fu soprannominato in Italia il “muratore del Friuli” e in Francia “Botescià”: divenne ciclista professionista soltanto a 27 anni, dopo avere lavorato come carrettiere e, appunto, muratore. Bersagliere ciclista durante la Grande Guerra, fu insignito della medaglia di bronzo al valor militare e, terminato il conflitto, partecipò - vincendole - ad alcune corse per dilettanti dove fu notato da Luigi Ganna, il primo a vincere il Giro d’Italia nel 1909.

Nel 1923 Bottecchia ben figurò alla Milano-Sanremo e al Tour de France, indossando per qualche tappa la maglia gialla e terminando secondo, pur essendo un gregario. Dopo le due vittorie nel 1924 e nel 1925 - quest’ultima con quasi un’ora di vantaggio sul secondo - Bottecchia divenne un eroe in Francia conquistando la fama e la tranquillità economica. Fu il primo italiano a salire su un podio al Tour, il primo italiano a vincerlo e a bissare il successo l’anno seguente, e il primo in assoluto anche a correre con la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, nel 1924: meglio di Coppi e Bartali, insomma…

Nel 1927 la fama di Bottecchia era ancora tanta ma la sua voglia di correre diminuiva: mesi prima, a marzo, una caduta gli aveva impedito di correre la Milano-Sanremo, e la prematura morte della sua prima figlia lo segnò così tanto che durante la Bordeaux-Parigi (che quell’anno si corse il 14 maggio) le cronache raccontano che si sia fermato e, seduto su un paracarro, sia scoppiato a piangere. Il 25 maggio morì improvvisamente il fratello Giovanni, anch’egli ciclista professionista, investito da un’auto mentre si allenava sulle strade di casa.

Quel venerdì 3 giugno 1927, Ottavio Bottecchia era uscito per allenarsi in vista dell’ormai imminente Tour de France (che sarebbe iniziato il 19 giugno) senza trovare nessun compagno di pedalata, neppure il suo compaesano e gregario Alfonso Piccin. Di certezze da quel momento in poi non ce ne sono molte: fu ritrovato poche ore dopo privo di sensi su una strada di Peonis, con fratture alla base del cranio e a una clavicola, oltre che con escoriazioni al viso e ai gomiti. La sua bicicletta fu rubata e lo sfortunato ciclista morì il 15 giugno all’ospedale di Gemona del Friuli senza mai riprendere conoscenza. Un po’ affrettatamente, l’indagine avviata decretò come causa della morte un incidente, forse per assicurare alla vedova il ricco premio assicurativo, forse per coprire altre cause. Infatti, qualche tempo dopo - e pochi giorni prima di morire - un contadino confessò di aver colpito Bottecchia (senza averlo riconosciuto) con un bastone, perché stava rubando dell’uva dalla sua vigna. Una volta emersa la stranezza del campione di ciclismo che si ferma ai primi di giugno per mangiare uva che - se già presente sui grappoli - sarebbe stata probabilmente immangiabile, la versione fu modificata (a contadino ormai morto) trasformando l’uva in ciliegie.

Si fece quindi avanti un secondo testimone, un gangster italo-americano che si accusò degli omicidi di entrambi i fratelli Bottecchia, a suo dire commissionati dal racket delle scommesse in quanto avevano fatto in modo che Ottavio vincesse una gara che avrebbe dovuto perdere. Anche in questo caso il reo confesso morì subito dopo le ammissioni e non fu possibile indagare più a fondo.

Don Dante Nigris, parroco di Peonis, parlò poi di un raid punitivo dei fascisti ai danni del socialista Bottecchia, obbligato controvoglia a tesserarsi al partito. Esponenti socialisti cavalcarono questa teoria dell’omicidio (avallata, secondo loro dal fatto che il ciclista era emigrato in Francia, dove aveva frequentato circoli proletari) e così l’inchiesta del regime fascista confermò a gran voce e in tutta fretta che si trattava invece di un incidente.

Qualcuno affermò che in seguito ai lutti e agli infortuni il ciclista avesse perso molto peso e fosse in precarie condizioni di salute, forse anche affetto da malaria. Qualcun altro diede la colpa a una birra ghiacciata che causò il malore che lo fece cadere, altri ancora avanzarono l’ipotesi di un killer arrivato dalla Francia, prezzolato dagli organizzatori del Tour de France che non avrebbero gradito una nuova vittoria di Bottecchia. E non poteva naturalmente mancare la pista passionale, con l’amante della moglie che sceglie di liberarsi di lui…

Tutte le teorie avevano punti deboli: è poco probabile una caduta così rovinosa senza una causa esterna (e, prima che sparisse, sulla bicicletta non furono trovati graffi o ammaccature) e non sono neppure chiare le motivazioni per cui un contadino e un sicario - entrambi in punto di morte - dovessero accusarsi di un omicidio.

Quello che è certo, a proposito dell’accusa del parroco, è che ai funerali non si presentò nessun gerarca fascista e neppure nessun ciclista italiano, ufficialmente impegnati al Tour. Solo un paio di colleghi arrivati da Francia e Belgio salutarono per l’ultima volta il grande ciclista.

Il paradiso degli scapoli

Bottecchia deve il nome di Ottavio al fatto che fu l’ottavo e ultimo figlio di un mugnaio e di una contadina. Il successo e la fama acquisiti in Francia con le vittorie al Tour de France, gli permisero di costruirsi una casa a Pordenone, acquistare una lussuosa limousine “OM” che faceva guidare a un autista (lui non aveva la patente), di incrementare i guadagni partecipando a gare dal ricco montepremi e dare vita nel 1926, insieme all’amico Teodoro Carnielli, al marchio “Bottecchia” per la costruzione di biciclette da corsa. Alla morte del ciclista, l’azienda Teodoro Carnielli (nata nel 1909) proseguì a produrre le “Bottecchia” diventando famosa negli anni per aver inventato la cyclette e la “Graziella”.

Alfonso Piccin fu grande amico di Bottecchia e per qualche anno suo gregario. Vinse qualche classica minore, giunse ottavo al giro d’Italia del 1929 e morì in un incidente motociclistico nel 1932, a soli 31 anni.

Il ciclismo di quegli anni era uno sport complicato: tappe di 400 chilometri della durata superiore alle dodici ore su strade al limite della praticabilità, pedalando su biciclette di 15 kg senza cambio. Le forature erano all’ordine del giorno e per cambiare le camere d’aria erano gli stessi ciclisti a smontare i copertoni a mani nude, perché le auto ammiraglie ancora non esistevano.

Una decina di anni fa, Trasaghis fu definito il paese degli scapoli. Oltre a certificare molte più nascite di maschi che di femmine, il comune friulano negli anni successivi al terremoto registrò sempre meno matrimoni: nessuno sposalizio per i nati nel 1956 e nel 1964, solo due per quelli del 1978 e tre per i nati nel 1967. Una vera emergenza sociale che il parroco del paese propose di superare organizzando un viaggio in Abruzzo dove, a suo dire, erano numerose le giovani che speravano nel matrimonio: ma anche lui, morì prima di riuscire a organizzare un pullman.

martedì 29 maggio 2018

Sabato a Bordano il libro sulle storie dei profughi del dopo Caporetto

Sabato 2 giugno, alle 18, nella sala consiliare di Bordano, verrà presentato il libro "Vengano in pochi, vengano in tanti" di Emi Picco. 
Il  libro è un concentrato  di testimonianze  su vicende  della nostra zona che vanno dall'Unità d'Italia all'emigrazione, ai fatti della  della grande Guerra, prima  e dopo Caporetto, con testimonianze  inedite di  profuganza   anche della  gente evacuata dalla sinistra Piave,  per passare poi alle vicende durante l'occupazione  nemica   sempre  nella zona (Val del Lago e Alto Friuli),coi disertori Austriaci ed i soldati italiani nascosti tra i boschi, fino alla vittoria e al ritorno alle proprie case da parte  dei profughi. A corredo vi sono anche foto riguardanti  la nostra zona   e non mancano considerazioni anche dure nei riguardi  dei "comandanti   dell'esercito italiano" relativamente alla gestione dei fatti militari. 
L'autore ha  voluto mettere  per iscritto tutte le testimonianze che nonna e bisnonna gli raccontavano  da bambino e tutte le notizie che è poi  riuscito a  conoscere da grande consultando testi e materiali documentari. Un concentrato, insomma, delle dolorose vicende della Grande Guerra viste dalla parte della popolazione.
La pubblicazione del libro è stata sostenuta dal Comune di Bordano, dal B.I.M. e dall'U.T.I. del Gemonese.


mercoledì 23 maggio 2018

Venerdì ad Alesso il libro di Facchin sulla Grande Guerra

La copertina del libro
Il forte di Monte Festa












Venerdì 25, alle 18.30, nel Centro Servizi di Alesso,  Emanuele Facchin, presentato da Raffaele Basso, illustrerà al pubblico il suo terzo romanzo storico sulla Grande guerra, “Eroi Senza Vittoria, La battaglia di Pradis” pubblicato con Gaspari editore. Il romanzo, pur presentando un respiro autonomo e una linea narrativa autoconclusiva, completa le vicende aperte con i due precedenti libri, “Eroi Senza Vittoria – la battaglia di Resia” ed “Eroi Senza Vittoria – la difesa del monte Festa”, dove Facchin raccontava le battaglie del dopo Caporetto nella porzione Nord del Fvg.

L’ultimo romanzo narra le vicende accadute alla 63° Divisione del Regio Esercito italiano e a un manipolo di uomini appena fuggiti dalla fortezza di monte Festa, nei giorni successivi alla “disfatta di Caporetto” (ottobre 1917) che, guidati dal comandante del forte, il cap. Winderling, riuscirono in maniera avventurosa a sganciarsi. Gran parte della 63° divisione, ritiratasi attraverso forcella Armentaria, venne invece poi catturata dagli austroungarici nella battaglia di Pradis.
La presentazione del libro viene promossa dal Comune di Trasaghis.


Emanuele Facchin


martedì 13 febbraio 2018

Venerdì le memorie di guerra di Ernesto Barazzutti, da Mena alla Libia al fronte Carnico

Venerdì a Tolmezzo, alle 18, presso la Biblioteca comunale, il prof. Enrico Folisi presenterà il libro delle "Memorie di guerra" di Ernesto Barazzutti, curato dal nipote Gianni Bressan.
Ernesto Barazzutti, classe 1892, di Mena, venne mandato nel 1913-14 a combattere nella guerra di Libia, in Tripolitania ed in Cirenaica; rientrato in Italia fece due anni di guerra sul fronte carnico, soprattutto nella zona del passo di monte Croce.
Di entrambe le esperienze egli tenne un diario personale: fu - come scrive nella prefazione lo storico Enrico Folisi - "un giovane soldato di leva che comprese l'importanza di scrivere su un quaderno momenti significativi del suo vissuto, che volle scrivere, annotare anche se frammentariamente perché riconosceva a se stesso un ruolo all'interno dei grandi eventi che aveva vissuto e che stava vivendo, all'interno di un ingranaggio che spesso considerava i soldati pedine senza importanza".
Tornato alla vita civile, Ernesto Barazzutti parlò assai poco delle dure esperienze vissute al fronte. Fu solo diversi anni dopo la sua morte che il nipote Gianni Bressan trovò, tra vecchie carte familiari dimenticate, anche i due diari e decise di pubblicarli pressoché integralmente dopo aver fatto delle ricerche integrative per documentare il contesto storico ed  identificare e localizzare  i toponimi indicati nel testo.
Gianni Bressan commenta così l'esperienza di vita del nonno: "I lunghi anni di guerra dal 1913 al 1918 avevano ghermito un giovane poco più che ventenne e restituito un uomo distrutto nella salute e nel morale. Non ho inteso che rare parole sulla sua esperienza di soldato. D'altra parte, ho maturato la consapevolezza che ci sono poche parole da dire per chi la guerra l'ha vissuta in prima persona. Alla fine, penso prevalga solo il ricordo della sofferenza passata".
Sono pagine anche dure, quelle riportate nel diario. Ma accanto alle sofferenze fisiche, si può immaginare lo strazio psicologico di quando, rientrato dalla Libia e in procinto di raggiungere il fronte carnico, si trovò ad annotare: "passammo per Tolmezzo, a qualche chilometro distante dal mio paese. Allora ricordai la mia famiglia, pensando qual sorte toccava ai miei vecchi genitori, ma per questo non mancai al mio giuramento e seguii la mia Compagnia".
(P.St.)



lunedì 15 gennaio 2018

Le memorie della Grande Guerra nella bandiera dei coscritti del 1998

Sul fronte della bandiera dei coscritti di quest'anno, viene ricordato il centenario della fine della Grande Guerra, con l'augurio che si possa un giorno festeggiare anche ricorrenze di Grande Pace.
Nell'osservare una vecchia foto ingiallita, il presente sbiadisce e quel passato si anima, prende colori e movimento, fino a creare una sorta di immedesimazione nelle persone illustrate.
Nel creare e pitturare la scena, abbiamo costruito delle storie che descrivono le vicende di queste persone; storie che probabilmente sono state viste e vissute dai nostri nonni e bisnonni, che ci hanno raccontato delle gioie dei ritorni e delle speranze o disperazioni nelle attese... I personaggi e le storie sono inventati, ma in realtà sono sicuramente tutti esistiti e chissà quante altre storie si potrebbero narrare e illustrare.
Abbiamo pensato che fosse interessante accompagnare l'esposizione della bandiera con questo breve racconto, presente anche sotto l'arco dove la bandiera è esposta.

I coscritti del 1998 e gli autori Manuel, Saira, Susan

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Una foto ritrovata nel cassetto del comò della nonna, una scena di paese, le montagne, le vecchie case di pietra. 

1918, Alesso. 

Sono gli attimi del ritorno a casa degli alpini della prima guerra mondiale. Un frammento della grande storia capitato tra le mie mani... 
Sono passati cent’anni, avevano la mia età...
Vedo una giovane donna accovacciata che sembra piangere. 

Ma ecco che qualcosa si muove, perde il colore antico delle vecchie foto, si colora... vive... 

A nal pos jessi lui” pensava Elena mentre quella penna nera, in un cappello troppo grande si avvicinava a lei. Lo ricordava uomo, ritornava un bambino. Fiorenzo, con le ultime forze che aveva, si mise a correre, la raggiunse e non le lasciò il tempo di fargli tutte le domande che durante la sua lontananza l’avevano tormentata; domande che cominciarono il giorno in cui lui era partito e che, dopo così tanto tempo, lei non si aspettava più potessero trovare risposta. Risposta non ci fu, almeno per quel momento. Lui la abbracciò e baciò sulla guancia come una dolce sberla, un colpo per il suo cuore, così forte che lei stessa non riuscì ad rispondere a quell’abbraccio; le sue mani rimasero aperte, pronte a stringerlo, ma non capaci di farlo. La dolcezza impetuosa di Fiorenzo nascose, per un attimo, la crudeltà e la bestialità che aveva fin ora visto. 
Il suo ritorno era anche il ritorno del cappello che portava in testa, quel cappello che, così grande, apparteneva al suo amico che non mai potrà ritornare. Fiorenzo scelse di portarlo indosso, lasciando il suo ben riposto nel suo zaino, per ricreare anche “quel” ritorno, riportare a casa anche lui. 

Era strano il cielo quel giorno, non sapeva più di inverno, giravano curiose numerose rondini scese dai boschetti delle sue care montagne. Fu la prima cosa che Niccolò notò, mentre il suo cuore batteva forte alla vista del profilo che va da Palas a Plombada. Quel profilo se l’era sognato mille volte e l’aveva ricostruito con la mente mentre calpestava sentieri di montagne non sue. “Cuissà la me famea lassù dal stali... cuissà s'a son sotét, s'a son tal ricès, s'a son tal sigûr... Ma c’era un altro profilo che Niccolò cercava ovunque: vedeva Lisa sulle vene dei rami rotti dal vento, tra le nuvole in cielo, nei disegni che l’acqua traccia passando tra i sassi, una sera lo immaginò anche nei solchi lasciati dal cucchiaio nel fondo della sua gavetta. Quel profilo adesso era lì. Niccolò si alzò il cappello in un gesto a metà tra il “cjala ch’al è ver ch’j sei tornat! J sei io!” e il “j na pos taponâ nancja un tocút di ce ch’j ai podut tornâ a jodi!”. Aveva tra le mani le lettere che non era riuscito a spedirle, le tirò fuori prima ancora di abbracciarla, quasi a voler confermare il suo impegno nel ricordarla nonostante il dolore, la fatica, il fango. Lisa, nel suo vestito azzurro lo strinse a se dolcemente, animando quella che, vista dall’alto, sembrava una danza. 

Margherita aveva tre figli, li aveva lasciati ad aspettarla tra gli archi della vecchia casa. Lei non si allontanò molto, andò in strada, non chiamò nessuno, non pianse. Anche Valentino le si avvicinò in silenzio. Non le disse che in guerra aveva avuto paura di morire, non le disse che pensava di non rivedere più la sua famiglia. Non riusciva a sostenere il suo sguardo. Stettero vicini. 

Caterina rimase, speranzosa, ad aspettare... 

Domenica, la giovane donna accovacciata, immobile, pianse per sempre imprigionata in quello scatto, nel colore antico delle vecchie foto. Giovanni non era tornato.


mercoledì 13 dicembre 2017

Un libro per raccontare quel che successe dopo la resistenza del Monte Festa

Gli eroi senza vittoria di Facchin

di Fabiana Dallavalle

Eroismo, coraggio, lealtà. Un episodio che non ha trovato spazio nei libri di Storia, riemerge dal buio del tempo. Lo sfondo è quello delle montagne, i volti sono giovani, il ritmo è dettato da una storia vera di fughe nei boschi, fucilazioni sommarie, tattiche di sopravvivenza, disperati tentativi di conquista. La forma è quella del romanzo, che mescola volti di eroi, narrando le vicende accadute alla 63ª Divisione del Regio Esercito italiano e a un manipolo di uomini appena fuggiti dalla fortezza di monte Festa durante la ritirata di Caporetto. 

Emanuele Facchin firma per Gaspari editore Eroi senza vittoria. La battaglia di Pradis e se l'inizio del racconto è dedicato a Cadorna e alle sue false accuse di viltà ai soldati italiani, a suo dire colpevoli della disfatta di Caporetto, il resto del romanzo è un'appassionata dedica a quegli uomini che non ebbero paura di affrontare le avversità della Storia. Una guerra di giovani, ragazzi mandati al fronte a morire, a cui spesso sono gli stessi padri a chiedere di partire "per fare la propria parte", mentre le madri li accarezzano per l'ultima volta. Ragazzi guidati da non meno giovani ufficiali, consapevoli di condividere impossibili piani con altri uomini che non torneranno più a casa. E poi la fame, il freddo, la malattia. La paura e il dolore della perdita di compagni e amici. La follia delle esecuzioni di italiani per mano "amica", il dilemma di uomini chiamati a prendere decisioni contro l'innato senso di sopravvivenza, e la narrazione di un senso del dovere, un amor di patria che si fa fatica a ritrovare oggi. Infine il tratteggio di due figure a cui è affidata la voce dell'impresa: il giovane tenente Michelangelo Torretta e il capitano di complemento Riccardo Noël Winderling deciso a riunirsi all'esercito italiano assieme ai suoi uomini dopo la rocambolesca fuga dal forte. Quest'ultimo, persona realmente vissuta, medaglia d'argento al valor militare, non seguirà la propaganda fascista e si occuperà di educare giovani studenti senza possibilità economiche nelle due scuole da lui presiedute. Un uomo che per i suoi uomini "veniva secondo, dopo Gesù", che nel romanzo è dipinto come l'eroe vero, colui che è naturalmente orientato al bene, alla scelta giusta, alla protezione degli uomini che gli sono affidati. Resta al lettore un senso di pietà per quei giovani, immolati sull'altare della follia politica - militare, la consapevolezza di quanto sia stata profonda la cicatrice che si stagliava lunga e insanguinata sul dorso delle alpi Carniche.

(Messaggero Veneto, 12 dicembre 2017)

martedì 21 novembre 2017

La gente della Valle del Lago e la Grande Guerra, una riflessione

Il "Messaggero Veneto" ha ospitato una ampia riflessione sulle conseguenze dei fatti di Caporetto e in generale della Grande Guerra per le popolazioni della Valle del Lago

A CENT'ANNI DA CAPORETTO È GIUSTO RICORDARE ANCHE LE SOFFERENZE DELLA GENTE


Persino il Corriere della Sera nei giorni scorsi ha ricordato che, durante la Grande Guerra, il forte di Monte Festa, sopra il lago di Cavazzo, "fu l'unico forte italiano che seppe resistere all'invasione austroungarica del 1917", rallentandone l'avanzata, a colpi di cannone, dal 27 ottobre al 7 novembre e consentendo in questo modo alle divisioni italiane un più ordinato arretramento.Si tratta di un episodio tra i più rilevanti, per la storia militare friulana del dopo-Caporetto, che giustamente viene ricordato (e l'11 novembre una grande commemorazione ha avuto luogo proprio sul forte, grazie all'impegno dei Comuni di Cavazzo Carnico, Trasaghis e Bordano, alle sezioni Alpine e ad associazioni come gli "Amici della Fortezza" di Osoppo).Accanto ai fatti militari, non deve però essere dimenticato il ruolo svolto, e spesso subito, dalle popolazioni. Si tratta di episodi di microstoria che sovente sono stati lasciati in second'ordine e che faticosamente si sta cercando di ricostruire. Grazie all'impegno di forze diverse (le biblioteche, l'ecomuseo della Val del Lago, il Centro di Documentazione sul Territorio...), di concerto con le Amministrazioni comunali, sono state realizzate pubblicazioni (come "Timp di vuere" e "Strade di guerra") e raccolte testimonianze capaci di documentare l'impatto della Guerra sui paesi della Valle del Lago.
Si possono così scoprire tutte le traversìe di quanti, sfollati da Valdobbiadene verso il Friuli, si trovarono ad affrontare una nuova invasione ("ci hanno portati nel Friuli ad Alesso, sul lago di Cavazzo. Era un paese in mezzo alle montagne, niente campagna. Era difficile trovare da mangiare, ci toccava venir giù per Udine a carità") e le drammatiche condizioni della fuga dai paesi che stavano per essere occupati ("le donne spaventate, posero nelle gerle poche cose e, con tutti i familiari abbandonarono piangendo le proprie case. Prima di scappare gli abitanti avevano liberato le mucche, lasciandole pascolare nei prati. Avevano cercato di nascondere alla meglio il raccolto, la biancheria e le poche misere cose di cui erano padroni Ormai le strade erano intasate di civili e soldati, cavalli, carri e qualche camion militare").Ma anche il ruolo dei sacerdoti, impegnati in quei giorni drammatici a sostenere la popolazione rimasta nei paesi di fronte alla assoluta mancanza di ogni genere di sostentamento ("posta nulla come ai tempi di Adamo ed Eva. Nulla di tabacco, nulla di pane, nulla filo, nulla tela, nulla stoffa, nulla olio, nulla petrolio, nulla benzina: ma che? Nulla di nulla e basta. Siamo pur rimasti, sia pur per breve tempo, senza uno degli elementi indispensabili per la vita: il sale. Lo zucchero viene periodicamente a mancare", scrisse il curato di Avasinis) e la sagacia e l'ardimento dei quattro giovani di Somplago che, di fronte alla requisizione delle campane imposte dagli austroungarici, riuscirono a nasconderne una ("mentre la soldatesca si accinge alla sacrilega impresa, con mirabile ardimento 4 somplaghesi prigionieri, con loro grande rischio, calano la loro campana rimasta dal campanile e la sotterrano salvandola dallo scempio").Se per i militari quello fu "il tempo del cannone", per la popolazione civile fu "il tempo della fame". Si trattò dunque di mesi assai duri, segnati da vicende dolorose che, pur a cent'anni di distanza, meritano senza dubbio di poter essere conosciute. In questo senso un contributo può essere offerto anche dal blog creato dal Centro di Documentazione sul Territorio del Comune di Trasaghis (questo l'indirizzo: http://blog.libero.it/centrodocalesso/) che, in queste settimane sta pubblicando, giorno dopo giorno, la cronaca di quanto è accaduto nei paesi della Valle del Lago nei giorni che seguirono la disfatta di Caporetto. 
Pieri Stefanutti ; Alesso

Messaggero Veneto, 20 novembre 2017