A cura di Franco Marchetta
Somplago, 2 dicembre 2010
Quanto costa il Campanile di roccia della Val Montanaia? Probabilmente se fosse destinato a essere smantellato per essere trasformato in materiale di cava per sottofondazioni stradali un prezzo al metro cubo si troverebbe. Ma la sola ipotesi farebbe inorridire la totalità degli escursionisti di montagna (anche quelli titolari di un’impresa di costruzioni). Per quale motivo? Perché il Campanile di Val Montanaia è un patrimonio collettivo, è di tutti, appartiene addirittura a una comunità che è più allargata rispetto a quella del territorio dove si trova. Il Campanile di Val Montanaia è dunque fuori mercato, al di là della sua natura intrinseca di formazione rocciosa e quindi, in quanto tale teoricamente utilizzabile.
Il confine è tuttavia labile fra ciò che si può fare e ciò che non si può fare. E’ un confine che si attesta su una distinzione sottile che in genere si riferisce a un diverso approccio ai fenomeni, sostanzialmente di tipo culturale (tutti ricordano con orrore – anche chi non è buddista – la distruzione dei giganteschi Buddah di Bamyan ad opera dei talebani).
Come si costruisce questo confine? Non esistono leggi particolari che favoriscono questa distinzione, se non alcune leggi di settore, in genere impositive, che impediscono di fare o non fare determinate cose, per cui il Campanile di Val Montanaia non si deve toccare. In teoria (in realtà lo si può fare molto bene). Dunque il confine è di tipo culturale e agendo su quelli che sono gli elementi propri di una costruzione culturale è possibile creare un sistema di protezione condiviso.
Tenterò di costruire un piccolo ragionamento per spiegare come mai si è creato un conflitto sul lago dei Tre Comuni, fra la popolazione locale una stupefatta Edipower (ma come? il lago è nostro. Com’è possibile che quei quattro valligiani non capiscano la forza dei disciplinari, dei progetti di sfruttamento, della necessità di produrre energia indispensabile per la crescita del Paese?). Va spiegato con pazienza che i disciplinari sono scritti sulla carta e sono sempre figli di un tempo. Va spiegato che il tempo deteriora naturalmente la carta e rende obsoleti patti che, mutatis mutandis, vanno rivisti non semplicemente con i nuovi attori, ma con la cultura del tempo attuale. Infatti la questione economica, la valutazione di opportunità, preferisco lasciarla ad altri, perché non riguarda il mio ragionamento, anzi, è fuorviante. Voglio piuttosto cercare di spiegare perché i tempi sono cambiati, per quale motivo la popolazione locale un tempo non poteva essere mobilitata e ora sì. Voglio spiegare che sull’atteggiamento della popolazione locale un tempo si poteva far leva per transitare progetti di sfruttamento, ora non più. Prima si comprende come si è determinata questa trasformazione e prima si chiude la faccenda.
Dopo l’imposizione nel 1957, da parte della Sade, della trasformazione del lago da temperato alpino a bacino di compensazione a territori locali debolissimi economicamente e socialmente, le società di gestione e di produzione che si sono succedute hanno operato al riparo del sentimento di nostalgia.
Mi spiego meglio: il lago dei Tre Comuni per quasi trent’anni non è stato ciò che ormai finalmente appare: un lago. Per la gente del posto è stato per un lungo periodo un tramite per esercitare il sentimento della nostalgia. In greco “ritorno” si dice nóstos, mentre álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. La nostra lingua, come molte delle lingue europee, utilizza questo termine di origine greca per definire questo stato d’animo, altre invece no e hanno qualche problema per rappresentare esattamente questo concetto, ricorrendo ad altre sfumature semantiche. I tedeschi, ad esempio, preferiscono dire Sehnsucht, ovvero “desiderio di ciò che è assente”, ma per esprimere compiutamente l’idea di un nóstos occorre aggiungere un complemento: Sehnsucht nach der Vergangenheit, ad esempio, cioè “desiderio del passato”.
Il sentimento di nostalgia della gente del posto ha cominciato a prendere forma dunque nel 1957, quando la Sade (a cui subentrò successivamente l’Enel) realizzò la Centrale idroelettrica di Somplago, trasformando il lago temperato alpino precedente in un lago freddo, essendo questo divenuto un bacino di compensazione funzionale alla produzione di energia in un complesso sistema che coinvolgeva mezza Carnia. E il desiderio del passato, la sofferenza per l’impossibilità di ritornare a ciò che il lago era un tempo, ha impedito alla gente del posto di vedere il lago per ciò che è.
Questo sentimento di nostalgia (che si è tradotto in rivendicazioni di varia natura, in petizioni di politici e di amministratori per riportare il lago alla sua natura originaria attraverso costose e inutili opere di by pass) ha cominciato a incrinarsi nei primi anni ’80, fino a scomparire del tutto ai giorni nostri. La linea di separazione, banale fin che si vuole ma rivoluzionaria all’epoca, fu rappresentata da un piano particolareggiato redatto dalla Comunità Montana per conto dei Comuni di Bordano e di Trasaghis, in cui si affermava che il lago veniva assunto come una risorsa ambientale esattamente così com’era e che persino la Centrale idroelettrica costituiva un elemento del paesaggio.
Mi prendo tutta la responsabilità, poiché sono stato (assieme a pochi altri che ci hanno creduto come Stefano Fatarella e Valentino Rabassi) il promotore di una ideologia innovativa di approccio al lago. In questo eravamo anticipatori di una cultura nuova, i cui concetti, ormai largamente diffusi, fanno parte dell’approccio culturale proprio degli ecomusei. Nel Progetto Ecomusei dell’Ires Piemonte del 2003 si chiarisce “parlare di paesaggio significa rifarsi a un concetto che valorizza l’idea di totalità, di interezza, di esistenza di relazioni, di insieme. Oggi il paesaggio, caricandosi di esigenze attuali, tipiche della nostra società, appare come un amalgama dove gli elementi naturali e culturali si intrecciano e si affiancano gli uni agli altri, originando un qualcosa che è più di una semplice sommatoria di elementi diversi”.
Erano i tempi in cui i giovani seguaci di alcuni studiosi come Ferrara, Giacomin, Romani o Susmel, cominciavano a mettere in pratica le loro letture e cominciavano a osservare il territorio secondo logiche di integrazione e non di separazione. Quel piano (1982) anticipò di poco la legge regionale n°11/83, che avrebbe previsto la formazione dei piani di conservazione e sviluppo dei parchi individuati nel piano urbanistico regionale, essendone in qualche modo figlio, nascendo comunque dalla temperie del tempo e dal dibattito allora vivo sull’uso del territorio come risorsa complessa (anche utilizzabile, secondo accezioni turistiche non tradizionali, a scopo ricreazionale).
Il lago cominciava ad essere considerato non semplicemente come un bacino necessario alla produzione di energia indispensabile altrove, ma come una risorsa ambientale a cui la gente del posto poteva fare ritorno senza più necessariamente provare il desiderio del passato.
I percorsi in questi casi sono lentissimi (il tempo aiuta: se un sentimento non viene coltivato inevitabilmente muore, al pari dei suoi epigoni) e si sostanziano attraverso una serie numerosa, spesso sconosciuta ai più, di atti, progetti, piani e contrattazioni che definiscono la struttura portante, che costruiscono lo scheletro (persino di processi, come quello intentato dall’ENEL presso il Tribunale delle Acque Pubbliche di Roma nei confronti di Regione e Comuni per aver consentito e adottato quel piano del 1982). Ma il corpo, che su quello scheletro si forma e si delinea, è fatto non dai tecnici (che al massimo potranno avere qualche intuizione nel recesso dei loro uffici) ma dalla disponibilità popolare a riconoscere il cambiamento, a cambiare atteggiamento, ad accogliere come un entità nuova, che tuttavia emerge dal passato, ciò che finalmente vede.
Gridare che il re è nudo sembra a posteriori un esercizio facilissimo, ma se un messaggio arriva è solo quando il ricevente è in grado di disporsi all’ascolto. Ciò è stato possibile grazie a una disposizione all’ascolto che nasceva da un’esigenza sorta dal basso: la gente del posto aveva bisogno di trovare una forma di riappropriazione del lago che si manifestasse come una opzione per il futuro e non come un semplice sentimento di nostalgia immodificabile.
Se il movimento non proviene dal basso è destinato ad esaurirsi: non è in grado di rinnovare la propria capacità di riprodursi se resta nella mano esclusiva di quei tecnici che comunque lo hanno ispirato (interpretando e traducendo il senso di una necessità) ma che non potranno mai esserne il motore. Il motore di un processo è la gente del posto e il motore resta in funzione finché la gente del posto, riappropriatasi sotto diversa forma di ciò che è suo da sempre, lo alimenta con un permanente stato di consapevolezza.
Questo lungo percorso continua e ora trova la sua logica conferma nella battaglia popolare che viene condotta contro il nuovo progetto di sfruttamento delle acque del lago portato avanti da Edipower, dove la questione non è più economica, non è più riconducibile a logiche di compensazione territoriale. E’ diventata una questione culturale.
Dopo il piano del 1982 (adottato dai comuni nel 1984, ma divenuto inefficace per effetto della sentenza del Tribunale delle Acque Pubbliche di Roma che diede ragione all’Enel), la porta era tuttavia aperta. La Comunità Montana e l’Enel paradossalmente avviarono una stagione di dialogo che portò tacitamente alla considerazione di entrambi i soggetti che, se l’acqua era in gestione all’Enel, le rive non potevano che essere in capo ai comuni e alla Comunità Montana. Iniziarono quindi una serie di interventi di riqualificazione ambientale delle rive che vennero realizzati con il parere e la condivisione sostanziale e formale dell’Enel.
Poiché il problema consisteva nell’erosione delle rive (determinato dall’escursione giornaliera delle acque causato dall’utilizzo del lago come bacino di compensazione del sistema idrico a monte che, attraverso la Centrale di Somplago, produceva energia elettrica) si è intervenuti prioritariamente su queste, in modo da garantirne la fruibilità, oltre che un assetto stabile dal punto di vista ambientale.
Gli interventi realizzati sono stati concepiti muovendosi sempre sul filo del rapporto fra realtà percepita e reale: se il lago ormai sembra un lago ma non lo è (essendo infatti un fiume a lentissimo scorrimento, dal punto di vista idrico), come si può recuperarne in toto le sue caratteristiche senza negarne la natura? Ovvero, hanno senso interventi di riqualificazione che nascondano totalmente la natura di semi-artificialità, oppure è meglio riconoscere, in ogni momento, le contraddizioni di questo ambiente complesso dove la mano dell’uomo si è fatta sentire pesantemente?
La strada scelta è stata la seconda e le opere realizzate hanno trovato una sorta di mediazione chiaramente voluta ed espressa fra natura e costruito, nel tentativo di controllare i fenomeni di microerosione delle rive, indirizzando di fatto un conflitto verso un sistema equilibrato che garantisse anche una gradevolezza percettiva.
In tappe successive (1984-2002) sono state bonificate le rive ricomponendo micro-assetti paesaggistici; proteggendole con palificate e rocce lungo la linea di erosione delle acque; liberandole da canneti di scarso valore ambientale e integrandole con quelli di elevato valore ambientale; ricreando spiagge con sistemi tecnici di sostegno di sostegno; realizzando punti di osservazione, ponti, pontili, camminamenti e sentieri, e infine edifici.
L’intervento più consistente è stato sicuramente la bonifica di un campo di mais, trasformato in un luogo umido: uno stagno che proponeva (e propone), nella successione vegetazionale e nell’ittiofauna, l’ambiente del lago come doveva essere prima della realizzazione della Centrale.
Il tutto confezionato, verrebbe da dire così, per costruire un ambiente ad alto livello di riconoscibilità, a sua volta riconosciuto all’interno del Piano di Conservazione e Sviluppo del Parco Naturale n°9 “del Medio Tagliamento” redatto da Pierluigi Grandinetti e Giorgio Dri.
L’attività dei Comuni e della Comunità Montana (qui sommariamente descritta per concetti che trascurano la lunga elencazione di opere di bonifica idrogeologica, di ricostruzione ambientale, di realizzazione di fabbricati utili alla fruizione di qualità, per non dire dei piani urbanistici che tutto ciò hanno permesso) si è dipanata fino ai giorni nostri lungo il percorso delineato in precedenza, ovvero con l’obiettivo di essere conseguenti nel rappresentare fisicamente, simboleggiare e interpretare il senso visibile di quella riappropriazione da parte della gente del posto di ciò che è suo da sempre.
Le opere fisiche realizzate sono le orme lasciate sul terreno dalla consapevolezza della comunità locale. E la comunità locale, nei confronti del lago, non si esprime più, come in passato per esercitare il sentimento della nostalgia, bensì per rappresentare il senso di una proprietà culturale. Piace a questo punto ricordare due epifenomeni che esulano dalla stretta categoria degli addetti ai lavori e che, proprio per questo, viaggiano in contesti universali, diventando automaticamente testimonianza e dimostrazione del cambiamento che si è determinato: ovvero che il lago è stato riportato nel tempo a mostrare la sua riconoscibilità intrinseca, che si manifesta attraverso la lettura di un contesto inequivocabile che lo qualifica come tale (acqua, rive, flora, montagne tutt’intorno…).
Il primo passaggio è un racconto del sottoscritto, pubblicato nel 1993 da Campanotto Editore,dove il lago è interprete parallelo, attraverso la meticolosa opera di trasformazione a cui è sottoposto e che vi è descritta, di una vicenda che riguarda un passaggio esistenziale del protagonista (ma siamo ancora nel campo delle intuizioni di chi ha mosso la prima pedina).
Il secondo invece è un film, ovvero uno spazio culturale dove il lago esce dall’ambito ristretto dei protagonisti della prima ora e diventa una location paradossalmente asettica e universale in quanto qualificata per ciò che appare: un lago. E’ la consacrazione autentica di un concetto: nel film Riparo, uscito nel 2007 per la regia di Simon Puccioni, il lago ospita alcune scene proprio su quelle rive trasformate dai primi interventi di ricostruzione ambientale dei primi anni ’80, e si mostra, nell’indifferenza di ciò che è stato, per ciò che è: il lago dei Tre Comuni, Bordano, Cavazzo Carnico e Trasaghis, paesi reali composti dalla gente che li abita.
L’ultimo passaggio è quello finale e consiste nel riconoscimento, da parte di un vasto movimento di opinione locale e non, che il lago è un patrimonio collettivo. Come per effetto della risultante violenta e improvvisa di un sentire sotterraneo, la popolazione locale reagisce riconoscendo il lago come proprio. Non per ragioni economiche, non perché pretende compensazioni, ma per effetto di un riconoscimento di carattere culturale e identitario.
Ecco da dove nasce la meravigliata sconfitta di Edipower. Il nuovo progetto di sfruttamento non può essere più portato avanti per la sua inattuabilità culturale. Non è possibile procedere. La gente ha sottratto alla trattativa gli elementi propri di chi credeva di condurla: la quantificazione economica. Non si può quantificare economicamente un patrimonio culturale.
Una sintesi dell'intervento di F.Marchetta è stata pubblicata sull'edizione cartacea de "La vita cattolica" (n. 47 del 3 dicembre, p. 43) col titolo "Il progetto Edipower può essere archiviato".
RispondiEliminaSi auspica che anche i lettori di questo Blog trovino interessante analizzare e commentare quanto esposto da Marchetta, che presenta secondo un punto di vista indubbiamente particolare tutta la "questione Lago".