"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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lunedì 30 ottobre 2017

Obiettivo su Bordano & Interneppo - 2 - La pecora nello stemma e nella economia bordanese

Dal prato allo stemma: la pecora in quel di Bordano

“Lo stemma del Comune di Bordano, in vigore dal 1983. Semplice ma evocativo, con un riferimento, quello alla pecora, tanto interessante quanto non banale. (foto da “comuni-italiani.it”)
Di rosso alla pecora d’argento, tenente in bocca un grappolo d’uva d’oro, ferma su campagna di verde; il tutto abbassato ad un capo troncato d’azzurro e d’argento. Ornamenti esteriori da comune”; questa la descrizione dello stemma del Comune di Bordano che si ritrova nello statuto comunale, con due elementi che spiccano maggiormente in questo insieme, in vero, piuttosto semplice: la pecora e il grappolo d’uva. Entrambi meriterebbero una trattazione a parte e questa volta intendo proprio partire con una di esse; rimango nel regno animale e quindi scelgo la pecora. Quando finalmente il 25 febbraio 1983 questo stemma, con decreto presidenziale e dopo richiesta dello stesso nostro Comune, fu ufficialmente ottenuto a rappresentanza del Comune e quindi dei due abitati di Bordano e Interneppo, fu compiuto un passo importante, anche se tardivo, oltre che sul piano istituzionale anche su quello simbolico. Quale altra simbologia ufficiale potrebbe infatti sintetizzare i caratteri più significativi di un territorio se non uno stemma? La combinazione tra allevamento con pascolo da una parte e agricoltura in senso stretto dall'altra è palesata dalla stessa rappresentazione, ed è anche ovvio che il rimando è stato inteso nei confronti di un passato contadino ed essenziale. Ma se di animali dobbiamo parlare, spontanea potrebbe sorgere la seguente domanda: come mai proprio una pecora è stata scelta a rappresentare la più evidente peculiarità presente nello stemma, ossia quella dell’allevamento, e non per esempio una vacca, una capra o un maiale? Per quale motivo insomma la figura della pecora è stata valorizzata al punto da comparire nello stemma al posto dell’animale da pascolo per eccellenza e che più poteva garantire sostentamento e guadagno, ossia la vacca?

Toni di Pontêli e la moglie Maria mentre ricavano del latte dalla loro pecora in periodo bellico. L’ambito in questo caso è quello di Interneppo, essendo Pontêli la località di questo paese più prossima al Lago di Cavazzo (foto dal libro “Bordan e Tarnep: storie e vite ator dal Lâc”)
In effetti si tratta di una questione non scontata se pensiamo che la pecora abbondava soprattutto nell’alta pianura, mentre nelle aree montuose era in genere subordinata ai bovini. Va dunque affrontata tenendo conto in buona parte, ma non completamente, della dimensione prettamente economica. Ricordiamo infatti come nel censimento del 1868, su 64803 capi ovini in Friuli, circa il 68% fosse in pianura (si erano esclusi i territori ancora asburgici). Per trovare una risposta al quesito, bisogna infatti considerare in primis che la zootecnia bordanese non prevedeva l’impiego di animali per un uso da lavoro, in quanto essi tutti, non solo le pecore, contribuivano a sostenere un’economia famigliare incentrata sullo sfruttamento di appezzamenti assai ridotti o comunque di non vaste proporzioni. In una ipotetica passeggiata per la campagna bordanese non avremmo insomma incrociato greggi e nemmeno buoi intenti a trainare aratri, anche tra l’altro per la morfologia stessa del territorio, spesso in pendenza e irregolare. Precise e accurate informazioni ci arrivano per esempio dagli atti preparatori del catasto austriaco, risalenti al 1826. Nelle note riguardo gli animali d’allevamento si legge che “La specie di questi bestiami consistono in Vacche, Manzette, Peccore (14) e Capre. Questi bestiami si considerano tutti da frutto”. Quest’ultima locuzione, “da frutto”, completa la prima osservazione: le bestie servivano soltanto a produrre materiale, sia esso alimento, lana ecc., non a produrre lavoro; questo “frutto” poi poteva essere consumato in famiglia, il più delle volte, oppure venduto per ricavarne quel poco denaro di cui si poteva disporre. Anche se pure in questo contesto la vacca rimaneva l’animale più prezioso, l’approccio riservato alla pecora rispecchiava un rapporto particolare, più intimo oserei dire. Innanzitutto, sempre dalle note del 1826, la pecora risultava essere in tutta la Val del Lago l’animale meno diffuso tra quelli menzionati, e nel 1858 vi erano 167 esemplari nell’intero Comune. Facendo un balzo in avanti fino alla prima metà del ‘900, scopriremo come la presenza continuasse ad essere esigua, in quanto le famiglie in genere ne possedevano una, massimo due esemplari ciascuna; questo almeno tra fine anni ’30 e fine anni ’40, secondo le testimonianze di una persona che fu tra le ultime a Bordano ad allevare animali da stalla, la signora Aurora Picco. Per cogliere il significato che aveva il rapporto bordanese – pecora, ci affidiamo dunque anche ai ricordi della signora Aurora, raccolti da Linda Picco. Il divario tra le condizioni tutt’altro che floride di Bordano e quelle di altre aree del Friuli, come la Bassa, ove la famiglia di Aurora sfollò dopo l’incendio tedesco del ’44 ai danni di Bordano, si palesò subito alla famiglia bordanese, non potendo quasi credere ai propri occhi nel vedere un pastorello intento a portare al pascolo un intero gregge. Su un centinaio e passa di pioris in paese, circa una su dieci era un maschio, roc in friulano, che naturalmente serviva per dare continuità alle generazioni di pecore, la cui fecondazione avveniva solitamente in autunno, per poi veder nascere l’agnello attorno a Pasqua. In pianura in realtà il maschio intero (cioè non castrato) era il monton, ma pare che sia un termine importato dal veneto e che “roc” fosse diffuso anche in pianura prima di rimanere confinato alle zone montane. Interessante notare come quest’ultimo sia entrato a far parte del vocabolario popolare anche con l’accezione di “testardo”, oltre a “rochèl”, cioè “sciocco”. Ah quante volte mio nonno mi diceva “puar roc”!

I “frutti” che garantivano gli ovini erano naturalmente la lana e il latte, mentre solo in occasioni di un certo tipo potevano fornire carne, e comunque solo gli agnelli o le pecore ormai a fine carriera. In quest’ultimo caso la pecora poteva anche essere venduta a qualche macello, mentre l’agnello era consumato tradizionalmente in famiglia come spezzatino insaporito con aglio, cipolla e altri condimenti. Per tutto il resto della vita di una pecora essa era una presenza fissa per le povere famiglie locali, un animale che non forniva molto, ma allo stesso tempo senza il quale l’economia già magra della famiglia sarebbe stata affossata. Gli animali in genere quindi non si vendevano ma al contrario potevano essere acquistati o presso altre famiglie del posto o nei mercati del bestiame, come quello che mensilmente animava la Piazza del Ferro a Gemona. Come abbiamo detto, poi, in mancanza di greggi e di vaste superfici per il pascolo, le pecore di ciascuna famiglia avevano a disposizione giusto un fazzoletto di prato privato in cui venivano lasciate brucare l’erba, soprattutto in primavera e autunno, mentre quando non si riusciva a ritagliarsi il tempo necessario per portarle al pascolo si lasciavano tranquillamente nella stalla, ove potevano cibarsi del fieno assieme alle vacche. Non si trattava di animali schizzinosi ma che anzi si adattavano a mangiare un po’ di tutto, come foglie e ortaggi, oltre naturalmente all’erba e al fieno. A vegliare su di loro al pascolo non c’erano dunque piorârs professionisti ma i membri delle rispettive famiglie, in particolare i ragazzini, che se le portavano dietro ben volentieri, quasi come animali da compagnia infondo. Era comunque necessario non perderle di vista, per evitare che sconfinassero in altri possedimenti creando magari dei danni. Sembra una cosa da poco ma era una delle varie questioni che venivano prese a pretesto dalle comunità locali per un continuo botta e risposta fatto di lagnanze e insofferenze. Ne è una prova la lettera del 24 marzo 1749, in cui si legge: “…la verità fu ed è che si sono ritrovati molti Animali minuti – ovini e caprini si intende – di ragione di quelli d’Interneppo e Bordan a pascolare né siti detti Seletto e Castellato compresi nel Privilegio donato a quelli di Trasaghis Braulins, ecc…”. Non consumavano neppure tanto, anzi decisamente poco, circa tre chili al giorno, e producevano mezzo litro a ogni mungitura (una alla mattina e una alla sera come per le vacche), alla fine quindi circa un litro al dì. Il latte non andava poi a costituire formaggi, in quanto era bevuto così, o forse non proprio così; dato il suo gusto forte era infatti preferibile diluirlo con l’acqua. Altrove invece il latte di pecora era la base per vari latticini, come il ricercatissimo pecorino di Villaorba, in un periodo in cui, fine ‘800, il formaggio vaccino era ancora agli inizi della sua storia, visto che era allora appena stata introdotta la vacca da latte per antonomasia, la Pezzata Rossa. Tali formaggi di pianura erano poi valorizzati grazie all’avvio, negli stessi anni, della coltivazione dell’erba medica. Infine la lana: con la tosatura di marzo e poi quella di settembre ogni pecora forniva all’incirca due chili di lana all’anno, coi quali naturalmente si ottenevano comodi e caldi indumenti per l’intera famiglia. La pecora era insomma compagna di vita e bene prezioso quanto bastava per tirare avanti tra emigrazione, povertà e guerre.

Ma quali erano nello specifico le caratteristiche anche fisiche degli ovini in Comune di Bordano? Si trattava della razza detta “nostrana” (o “Bergamasca”), dotata di lana bianca di buona qualità e che non subiva incroci. Il roc poteva aggirarsi sino al quintale di peso, mentre le femmina la metà o anche meno. Il confronto tra le pecore di Bordano e quelle di altre località friulane non stride più di tanto, anzi in confronto a quelle carniche dovevano essere decisamente superiori. Ecco infatti la tutt’altro che rosea descrizione che nel 1858 il Lupieri fa della pecora della Carnia: “…di razza piccola, brutta e di vilissima lana (...) sì povere di latte che slattato l’agnello, nemmeno si cura di mungerle”. La presenza in regione di esemplari non locali, registrata nel 1868, riguardava però solo territori di pianura.

All’alba della seconda metà del secolo scorso il vortice della modernità cominciò a coinvolgere gradualmente anche i paesi dalle forti e radicate tradizioni rurali come il nostro, e ormai l’allevamento, compreso quello delle pecore, perse d’importanza, o meglio, non conveniva più mantenerlo. Così, 4 anni dopo che la figura della pecora finì in bella mostra al centro dello stemma comunale, si “estinsero” gli ovini a Bordano, con l’ultima appartenente alla signora Aurora Picco. Ma non solo a Bordano il tracollo dell’allevamento ovino arrivò nello scorso secolo; in tutta la regione subì un costante regresso fino appunto a scomparire in diverse zone.

Oscar Rossi ed Ermanno Rossi si avventurano attraverso il prato pendente una volta noto come Prât dal Agnel, oggi ancora tale in quanto punto strategico per i cacciatori. (foto di Enrico Rossi)
Questo insomma il quadro generale che perdurava nella nostra comunità, ma, qualcuno domanderà, con un corredo di toponimi così ricco e variegato come il nostro, da qualche parte, magari su qualche versante imboschito, esiste una località che storicamente è dotata di un nome che rimandi all’allevamento delle pecore? L’interrogativo, come ben capirete, è più retorico che altro, altrimenti non l’avrei nemmeno posto; la risposta quindi è sì. La località in questione è singolare prima di tutto per un motivo di copertura vegetale: è una delle pochissime macchie di radura rimaste in tutto il versante sud del San Simeone tra Bordano e Interneppo. Altitudinalmente siamo esattamente a 400 m slm, quindi comunque a quote basse, e in linea d’aria ci collochiamo praticamente a metà strada tra i due paesi. Raggiungerla non è assolutamente difficile: basta seguire la ex Strada Militare del San Simeone e fermarsi poche centinaia di metri dopo aver passato il bivio con l’altra strada ex militare, quella del Festa. Dalla strada parte sulla sinistra un sentiero che si inoltra per un tratto nei giovani e irregolari boschi della zona per poi sboccare in un prato pendente. Anche se la densità degli alberi già cresce spostandosi verso i bordi, rimane comunque al centro un’area completamente spoglia, tanto che non si fa fatica a vederla su Google Maps. Per dare un’idea più precisa del posto, se si proseguisse nel bosco verso nord-ovest, si arriverebbe in brevissimo tempo in località Fran di Cjavaç, sopra il sottostante Rio Costa, che proprio lì appresso incrocia la Strada del Festa sotto il Puint di Bree; è la zona del bivio già citato. Il nome della nostra località è Prât dal Agnel, e, oltre ad essere perfettamente riconoscibile dal bosco che la circonda, è anche contornata da roste molto lunghe, anche queste ben intuibili dall’alto. Ovviamente il sito non è visitato da pecore da moltissimi anni ormai, dunque perché è ancora mantenuto a prato? È un ottimo punto d’osservazione per i cacciatori della riserva di caccia comunale, i quali hanno installato alcune attrezzature tipiche, come le classiche torrette in legno e i blocchi di sale sui tronchi per attirare gli ungulati. Rimanendo nei dintorni, possiamo verificare come altri siano i toponimi, precisamente agrotoponimi della categoria dei zootoponimi, in cui è esplicitato il riferimento agli ovini: Clap dal Agnel e Cret dal Agnel a Gemona, Val das Piôras e Cret das Piôras ad Alesso. Persino a Udine v’era un Pra dall’Agnèl, un “Pezzo di terra fuori la porta di Pracchiuso…” (1787).
 
Questa cartina topografica dà un’indicazione precisa della collocazione del Prât dal Agnel (numero 20) e dell’adiacente Fran di Cjavaç (numero 19). Quest’ultimo identifica l’area a est del bivio tra la Strada del Festa, che punta verso nord-ovest, e quella del San Simeone. Quest’ultima invece si dirama dalla Provinciale alla Sella di Interneppo (è il primo bivio). La linea tratteggiata che contorna il numero 20 indica le roste che lì ancora si sviluppano e che permettono di identificare inequivocabilmente la località. (foto dal libro “Bordan e Tarnep: nons di lûc”)


La pecora a Bordano e Interneppo fu quindi un animale che personificò il volto riservato e umile, ma allo stesso tempo adattabile e tenace, di comunità che per secoli condussero un’esistenza ai margini delle grandi innovazioni che si irradiavano dai grandi centri. All’ombra del Naruvint e del San Simeone, placide e fedeli le pecore accompagnarono intere generazioni di bordanesi e interneppani, fino a che scomparvero nel momento in cui l’emancipazione novecentesca da arcaici sistemi e stili di vita non coinvolse anche la nostra piccola terra tra il lago e il fiume. Si può dire che l’unica pecora che da noi ancora sopravvive è proprio quella dello stemma. Chissà se le nostre antiche famiglie avrebbero mai immaginato che il loro fido animale sarebbe finito a rappresentare il Comune in un' epoca che ormai non avrebbe più avuto bisogno di lui!

                                                       
                                                                                                               Enrico Rossi

Fonti:
Libro "Bordan e Tarnep: nons di lûc", Enos Costantini, 1987
Libro "Bordan e Tarnep: un modello di sviluppo autosostenibile", Luigi Tomat, 2006
Libro "Val dal Lâc", a cura della Società Filologica Friulana, 1987
Libro "Bordan e Tarnep: storie e vite ator dal Lâc", a cura di Enos Costantini, 1997
Libro "Toponomastica storica della Città e del Comune di Udine", Giovanni Battista Della Porta, 1991 (riedizione)
Periodico "Monte San Simeone", marzo 1988 
Periodico "Tiere furlane", ottobre 2016

2 commenti:

  1. Bravissimo Enrico Rossi, credo che una ricerca così approfondita e ricca di elementi non sia mai stata fatta riguardo alle origini della simbologia adottata per rappresentare il comune sullo stemma ufficiale. Unica nota da fare è che la signora Aurora non era Picco bensì Colomba: Colomba Aurora (di Tilde)

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    1. La ringrazio davvero molto per l’apprezzamento. Riguardo la signora Aurora, io in realtà ho ricevuto conferme sul cognome Picco; mio padre ha aggiunto che era la madre dell’ex sindaco di Bordano Olivo Picco, scomparso a fine 2016.

      Enrico Rossi, Udine

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