Fra i tanti aspetti della personalità del presule, è forse il caso di sottolineare il ruolo assunto durante gli anni complessi e difficili della ricostruzione, attraverso decise prese di posizione, anche talvolta "scomode". E' un aspetto, per esempio, richiamato dall'attuale Arcidiacono di Tolmezzo:
SISMA E RICOSTRUZIONE
Testimonianza dell'arcidiacono di Tolmezzo, mons. Angelo Zanello
TOLMEZZO (1 gennaio, ore 18) - Dobbiamo riconoscere noi friulani e soprattutto quanti hanno vissuto il terremoto che uno dei grandi protagonisti della Chiesa e nella Chiesa con i suoi preti è stato l’arcivescovo Battisti. Forse ci vorrà ancora tempo per poter valutare appieno il contributo assolutamente primario che questo uomo di Dio ha dato alla causa del Friuli, dei Friulani dei terremotati e della nostra cultura. Bisognerà forse mettere insieme tutto quello che ha detto e scritto nei lunghi anni del suo governo pastorale a difesa del Friuli e le proposte fatte a tutti i livelli per capire come questa figura si stagli alta oltre ogni dire e quanto sia grande di fronte a chi tentò di fermarlo, di offenderlo, di farlo tacere.
Un Vescovo coraggioso. Presenza umana, partecipazione commossa, vive il dramma con le comunità. Ne porta la voce ovunque. Prende posizione contro i ritardi. Grida per le lungaggini. Denuncia il rialzo dei prezzi.
Un Vescovo profeta. Guida la sua Chiesa con la lettura degli eventi nella Parola di Dio, interpretando tutti i fatti secondo lo Spirito di Dio che guida la storia. Anima la sua gente a non scoraggiarsi. Parla e dispensa la parola di Dio a tutti e in tutte le situazioni, anche le più critiche, scrive e indirizza lettere pastorali ogni anno ai suoi sacerdoti e al suo popolo. Una ricchezza di magistero che sorprende ancora e soprattutto oggi.
Un Vescovo maestro nella carità. Se non fummo abbandonati nelle tende, nelle roulotte, nei nascondigli più disparati in quell’inverno 1976/77 lo fu soprattutto per l'amore condensatosi sul Friuli con i gemellaggi delle quasi 90 Caritas diocesane d’Italia che corsero in aiuto dei terremotati. In ogni paese le Caritas diocesane lasciarono unìantenna – come chiamarono le persone che restarono nei paesi accanto ai terremotati rimasti – che raccogliesse ogni segnale di richiesta di aiuto e vennero da ogni parte d’Italia e d’Europa per starci vicino. Ancora non si è spento quell’immenso gesto d’amore di cristiani accanto a gente che voleva solo vivere. E il Vescovo Battisti con altri generosi collaboratori ne fu l’anima. Anche perché le Caritas non fecero soltanto un po’ d'assistenza ma riportarono in tutta Italia il grido della gente del terremoto e le ragioni dell’impegno richiesto a Stato, Governo e Regione da parte della Chiesa friulana con il suo Vescovo.
Lo accusarono i politici denunciandolo alle Autorità romane. Un giorno, dopo la manifestazione del novembre 1977, fu chiamato dall’amico e condiscepolo cardinale Achille Silvestrini dalla Curia romana che gli disse :”Alfredo ti ho sempre conosciuto come un uomo di pace. Cosa ti metti a fare adesso, occupi la Prefettura? Ti metti con i facinorosi.” Non gli fu difficile difendersi. Ma forse si giocò la cattedra episcopale e la porpora cardinalizia di Bologna. Lo accusarono alcuni uomini di Curia e suoi collaboratori. Lo trattennero per la tonaca perché non si esponesse proprio in quella manifestazione con i terremotati. Ma Lui scese con la sua gente. “Se mancherò oggi, come potrò parlare domani”, disse. Ma già il 4 settembre a Gemona, durante la famosa visita di Andreotti, ai cancelli della caserma Goi, alla richiesta fattagli dai terremotati di essere accompagnati dal primo Ministro per esporre i veri problemi della gente in una visita non di cortesia, accondiscese e alla negazione della autorizzazione all’ingresso per la gente, anche lui rifiutò l’ incontro e rimase con i terremotati al di qua dei cancelli. Fu un segno forte e palese dove la Chiesa era e con chi stava. Tra quei terremotati in prima linea c’era un giovane prete, don Duilio Corgnali, che guardando negli occhi il suo Vescovo gli disse :”Se entra, non potrà più stare con noi”.
Un vescovo con i suoi preti. Perché i sacerdoti, i parroci si mobilitarono subito. Erano in mezzo alle macerie con il loro popolo. Ma subito anche a pensare sul vero da farsi. L’11 maggio, il gruppo di Glesie Furlane, guidato da don Paolo Varutti, scrive il primo documento: Dopo il taramot ai furlans che crodin. E’ il primo pronunciamento e presa di posizione. Scriverà Rinaldo Fabris a proposito :“Per la sua tempestività e lucidità di analisi, il documento merita l’attenzione di chi guarda retrospettivamente a quei giorni di caos materiale e sociale. Le indicazioni di Glesie Furlane si sono rivelate sagge e lungimiranti anche se non capite subito dagli altri preti “ Già in quel primo documento i sacerdoti si rivolgono a nome del popolo alle autorità statali e regionali, ai partiti e forze sociali perché nella ricostruzione riconoscano ai friulani il diritto di conservare la propria fisionomia etnico-culturale che è anche un modo diverso di vivere e lavorare e chiedono che, sospese tutte le complicanze burocratiche, si dia mandato ai comuni di e agli enti locali le responsabilità per la ricostruzione.
Questo essi chiedono dopo aver delineato anche il tipo di presenza della chiesa a servizio del popolo friulano: non sostituirsi a nessuno, ma dare voce a un popolo che ha sempre pagato e reso servizio all'Italia sul confine orientale. In quel documento tra l’altro per la ricostruzione delle chiese i preti di Glesie furlane hanno fatto per primi una proposta tradotta in uno slogan che ha creato qualche perplessità in alcuni: “Prima le case e poi le chiese”. Con una spiegazione ricca e abbondante di quanto si voleva significare quello slogan era una sintesi di un lungo ragionamento sull’esperienza del nuovo modo di vivere e celebrare la fede, sostanziato di solidarietà e forza morale che dovevano essere alla base della stagione che si prospettava per i credenti. Dove però il prima e il dopo non erano intesi in senso strettamente cronologico, ma in senso di maturità spirituale e interiore raggiunta in un contesto di ricostruzione globale.
Da quel documento presero le mosse altri ricchissimi interventi e assemblee di sacerdoti. Ne ricordo una il 27 gennaio ad Aquileja 200 preti scrivono e indirizzano alle chiese un documento: “Vanzeli per un popul”, pubblicato su Vita Cattolica il 12 febbraio 77. Sullo sfondo di numerose e ricche prese di posizione anche di altri gruppi ecclesiali fuori dal terremoto (Lettere friulane primis già l’11 maggio 76) si colloca la linea di azione del Vescovo, il suo magistero, le sue prese di posizione, la ricchezza dei suoi pronunciamenti morali.
I Volontari. Decine di migliaia si riversarono sul Friuli terremotato: una fiumana. Mai sapremo quanti. E i giovani. Commoventi. “Sono stati loro i primi ad accorrere come sempre pronti ad offrisi a ogni flagello” (Turoldo). Sempre accanto alla gente. I Giovani nella loro generosità nella loro spontaneità, nel loro impulso umano e cristiano hanno segnato la grande stagione del terremoto di una fioritura di incontri ricchi e di relazioni fittissime.
Una stagione che poteva essere solo grigia e nera è fiorita come una primavera piena di sole e di colori. Tale è stata la stagione del terremoto dal punto di vista dei giovani giunti e delle tante migliaia di volontari accorsi ad aiutare la nostra gente. Ne abbiamo ancora viva memoria per quanti, forse sei-ottomila nella sola Artegna nell’estate 1976. Sono stati anche cacciati dopo la primissima emergenza. Ma sono tornati. Li accusavano in massa di essere estremisti, se raccontavano quanto vedevano. Ma quando i giovani non si sono infiammati davanti alle ingiustizie e ai soprusi? E loro hanno partecipato con cuore, sacrificio e abnegazione ad aiutare, a svuotare cantine e soffitte, a togliere travi. A fare lavori inutili e umili alla parvenza ma indispensabili per risollevare il cuore della gente.
(...)
Un Vescovo profeta. Guida la sua Chiesa con la lettura degli eventi nella Parola di Dio, interpretando tutti i fatti secondo lo Spirito di Dio che guida la storia. Anima la sua gente a non scoraggiarsi. Parla e dispensa la parola di Dio a tutti e in tutte le situazioni, anche le più critiche, scrive e indirizza lettere pastorali ogni anno ai suoi sacerdoti e al suo popolo. Una ricchezza di magistero che sorprende ancora e soprattutto oggi.
Un Vescovo maestro nella carità. Se non fummo abbandonati nelle tende, nelle roulotte, nei nascondigli più disparati in quell’inverno 1976/77 lo fu soprattutto per l'amore condensatosi sul Friuli con i gemellaggi delle quasi 90 Caritas diocesane d’Italia che corsero in aiuto dei terremotati. In ogni paese le Caritas diocesane lasciarono unìantenna – come chiamarono le persone che restarono nei paesi accanto ai terremotati rimasti – che raccogliesse ogni segnale di richiesta di aiuto e vennero da ogni parte d’Italia e d’Europa per starci vicino. Ancora non si è spento quell’immenso gesto d’amore di cristiani accanto a gente che voleva solo vivere. E il Vescovo Battisti con altri generosi collaboratori ne fu l’anima. Anche perché le Caritas non fecero soltanto un po’ d'assistenza ma riportarono in tutta Italia il grido della gente del terremoto e le ragioni dell’impegno richiesto a Stato, Governo e Regione da parte della Chiesa friulana con il suo Vescovo.
Lo accusarono i politici denunciandolo alle Autorità romane. Un giorno, dopo la manifestazione del novembre 1977, fu chiamato dall’amico e condiscepolo cardinale Achille Silvestrini dalla Curia romana che gli disse :”Alfredo ti ho sempre conosciuto come un uomo di pace. Cosa ti metti a fare adesso, occupi la Prefettura? Ti metti con i facinorosi.” Non gli fu difficile difendersi. Ma forse si giocò la cattedra episcopale e la porpora cardinalizia di Bologna. Lo accusarono alcuni uomini di Curia e suoi collaboratori. Lo trattennero per la tonaca perché non si esponesse proprio in quella manifestazione con i terremotati. Ma Lui scese con la sua gente. “Se mancherò oggi, come potrò parlare domani”, disse. Ma già il 4 settembre a Gemona, durante la famosa visita di Andreotti, ai cancelli della caserma Goi, alla richiesta fattagli dai terremotati di essere accompagnati dal primo Ministro per esporre i veri problemi della gente in una visita non di cortesia, accondiscese e alla negazione della autorizzazione all’ingresso per la gente, anche lui rifiutò l’ incontro e rimase con i terremotati al di qua dei cancelli. Fu un segno forte e palese dove la Chiesa era e con chi stava. Tra quei terremotati in prima linea c’era un giovane prete, don Duilio Corgnali, che guardando negli occhi il suo Vescovo gli disse :”Se entra, non potrà più stare con noi”.
Un vescovo con i suoi preti. Perché i sacerdoti, i parroci si mobilitarono subito. Erano in mezzo alle macerie con il loro popolo. Ma subito anche a pensare sul vero da farsi. L’11 maggio, il gruppo di Glesie Furlane, guidato da don Paolo Varutti, scrive il primo documento: Dopo il taramot ai furlans che crodin. E’ il primo pronunciamento e presa di posizione. Scriverà Rinaldo Fabris a proposito :“Per la sua tempestività e lucidità di analisi, il documento merita l’attenzione di chi guarda retrospettivamente a quei giorni di caos materiale e sociale. Le indicazioni di Glesie Furlane si sono rivelate sagge e lungimiranti anche se non capite subito dagli altri preti “ Già in quel primo documento i sacerdoti si rivolgono a nome del popolo alle autorità statali e regionali, ai partiti e forze sociali perché nella ricostruzione riconoscano ai friulani il diritto di conservare la propria fisionomia etnico-culturale che è anche un modo diverso di vivere e lavorare e chiedono che, sospese tutte le complicanze burocratiche, si dia mandato ai comuni di e agli enti locali le responsabilità per la ricostruzione.
Questo essi chiedono dopo aver delineato anche il tipo di presenza della chiesa a servizio del popolo friulano: non sostituirsi a nessuno, ma dare voce a un popolo che ha sempre pagato e reso servizio all'Italia sul confine orientale. In quel documento tra l’altro per la ricostruzione delle chiese i preti di Glesie furlane hanno fatto per primi una proposta tradotta in uno slogan che ha creato qualche perplessità in alcuni: “Prima le case e poi le chiese”. Con una spiegazione ricca e abbondante di quanto si voleva significare quello slogan era una sintesi di un lungo ragionamento sull’esperienza del nuovo modo di vivere e celebrare la fede, sostanziato di solidarietà e forza morale che dovevano essere alla base della stagione che si prospettava per i credenti. Dove però il prima e il dopo non erano intesi in senso strettamente cronologico, ma in senso di maturità spirituale e interiore raggiunta in un contesto di ricostruzione globale.
Da quel documento presero le mosse altri ricchissimi interventi e assemblee di sacerdoti. Ne ricordo una il 27 gennaio ad Aquileja 200 preti scrivono e indirizzano alle chiese un documento: “Vanzeli per un popul”, pubblicato su Vita Cattolica il 12 febbraio 77. Sullo sfondo di numerose e ricche prese di posizione anche di altri gruppi ecclesiali fuori dal terremoto (Lettere friulane primis già l’11 maggio 76) si colloca la linea di azione del Vescovo, il suo magistero, le sue prese di posizione, la ricchezza dei suoi pronunciamenti morali.
I Volontari. Decine di migliaia si riversarono sul Friuli terremotato: una fiumana. Mai sapremo quanti. E i giovani. Commoventi. “Sono stati loro i primi ad accorrere come sempre pronti ad offrisi a ogni flagello” (Turoldo). Sempre accanto alla gente. I Giovani nella loro generosità nella loro spontaneità, nel loro impulso umano e cristiano hanno segnato la grande stagione del terremoto di una fioritura di incontri ricchi e di relazioni fittissime.
Una stagione che poteva essere solo grigia e nera è fiorita come una primavera piena di sole e di colori. Tale è stata la stagione del terremoto dal punto di vista dei giovani giunti e delle tante migliaia di volontari accorsi ad aiutare la nostra gente. Ne abbiamo ancora viva memoria per quanti, forse sei-ottomila nella sola Artegna nell’estate 1976. Sono stati anche cacciati dopo la primissima emergenza. Ma sono tornati. Li accusavano in massa di essere estremisti, se raccontavano quanto vedevano. Ma quando i giovani non si sono infiammati davanti alle ingiustizie e ai soprusi? E loro hanno partecipato con cuore, sacrificio e abnegazione ad aiutare, a svuotare cantine e soffitte, a togliere travi. A fare lavori inutili e umili alla parvenza ma indispensabili per risollevare il cuore della gente.
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Mandi, Monsignôr!
Mons. Battisti ad Avasinis nel 1989, alla presentazione del libro "Timp di vuere" |
Mi unisco al bel ricordo di mons.Battisti.
RispondiEliminaMi sono permessa di stamparmi la foto perchè, oltre all'Arcivescovo, c'è anche don Terenzio che ho conosciuto benissimo e che da "grande" ho apprezzato più di quanto facessi da bambina (lui era il Parroco di Cazzaso e Fusea e io sono fuseana)