L’archivio nazionale racconta per immagini la resurrezione friulana
Sabato, in municipio a Venzone, l’Associazione Comuni terremotati e sindaci della ricostruzione del Friuli e l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione del Ministero dei Beni culturali presenteranno “La memoria di un evento” (343 pagine, 48 euro). Si tratta della monumentale raccolta di documentazione fotografica sui giorni del sisma del 6 maggio 1976 per la prima volta offerta dagli archivi dell’istituto centrale e realizzata dal Gabinetto fotografico nazionale. Alle 9.30 si terrà l’incontro dei sindaci dei 137 comuni terremotati con la presidente del Friuli Vg, Debora Serracchiani; alle 11 sarà presentato il catalogo. Interverranno il sindaco di Venzone Fabio Di Bernardo, il presidente onorario dei sindaci del terremoto Franceschino Barazzutti, il giornalista Paolo Medeossi, il direttore dell’Istituto per la catalogazione Laura Moro, la presidente Serracchiani e l’allora commissario straordinario del Governo, Giuseppe Zamberletti. Nel catalogo Paolo Medeossi firma uno dei capitoli piú emozionanti e coinvolgenti del quale pubblichiamo una sintesi.
(Messaggero Veneto, 8 aprile 2015)
di PAOLO MEDEOSSI
Il velo che copriva la dimensione della catastrofe venne tolto all’alba del 7 maggio. Soltanto le prime luci potevano fornire il quadro definitivo di ciò che in quella notte di terrore, di grida solitarie nel buio, di fervore coraggioso, di collegamenti precari, si era intuito a fatica viaggiando come automi nel nostro piccolo mondo devastato e ferito. Un’impressione spietata e forte, nella convinzione che nulla poteva piú essere come prima. Pochi secondi erano bastati ad aprire sotto i piedi una voragine da medioevo, riportando il Friuli in una condizione remota e disperata. L’elicottero pilotato dal tenente Vincenzo De Carlo della Guardia di finanza di Varese si era alzato dalla base di Campoformido alle 8.46 di domenica 9 maggio, una mattina livida di pioggia dopo giorni di sole bruciante. Era la prima occasione offerta ai cronisti per osservare dall’alto ciò che la scossa sprigionatasi dalla pancia inquieta del San Simeone aveva provocato. E fu un pellegrinaggio tristissimo per toccare i paesi di una terra che appariva come un enorme cumulo di travi, di sassi, di case vecchie e nuove finite in un frullatore impazzito che le aveva maciullate con la spietatezza del dito che schiaccia una formichina. Dovunque le prime tendopoli con dentro e attorno figure laboriose già al lavoro, senza aspettare che altri si muovessero per dare una mano. (...) Le tende sembravano aver assunto il tipo di ordine e rigore che hanno le case friulane. Le donne e gli uomini, stringendo i denti, avevano voluto ricrearvi, pur nella assoluta precarietà, i sistemi di vita preesistenti, con i bambini pronti a riprendere il filo dei loro giochi mentre i nonni stavano seduti sulle seggioline, quasi a simboleggiare uno spirito di comunità familiare e sociale che doveva resistere all’ennesima prova scaraventata qui dal destino. La terza che il Friuli, dopo aver subíto sulla sua pelle gli orrori della prima e della seconda guerra mondiale, era chiamato ad affrontare nel giro di circa sessant’anni. L’elicottero continuava a volteggiare con rispetto, quasi nascondendosi agli occhi dei terremotati, cercando di celare anche il rumore che provocava nel silenzio di una domenica allucinante, in cui si seppellivano a decine le vittime con riti antichi nella loro sacralità: senza ostentazioni, senza applausi, senza drammi urlati, in quella riservatezza assoluta che fa parte del carattere privato dei friulani. E intanto da lassú il fotografo scattava immagini che sono rimaste nella tragica storia della nostra terra e che sono simili a quelle pubblicate in questo libro. Sono testimonianze fondamentali per far capire come eravamo ridotti e da cosa siamo usciti in una decina d’anni. A tale proposito vanno citate le commosse parole scritte da Padre David Maria Turoldo nel libro “Mia terra, addio” uscito nel 1980: «Ho visto Majano distrutta, Osoppo distrutta, Gemona distrutta, Artegna distrutta, Magnano distrutta, e Carnia distrutta e Venzone e Tarcento e Trasaghis e Montenars e Mels e Buja e Colloredo, una casa dietro l’altra come una impazzita via di croci fatte di travi e di cornicioni; e fieno tra le macerie, e le pannocchie franate insieme ai mattoni, e i letti delle camere squarciate a metà impudicamente esposti; quelle camere che erano per noi tabernacoli di ricordi e di segreti gelosissimi; e il cuore delle nostre case sepolto sotto le montagne di detriti. Sí, questo e altro, e chiese e campanili e castelli e vie di secoli e intreccio di civiltà e ricordi di morti, tutto distrutto, e ora non è che un panorama unico di macerie. Ora è come se girassi con tutti questi calcinacci addosso e con la tunica bianca di polvere». Padre David era uno dei tanti a muoversi stupito, addolorato, impolverato, fra luoghi diventati lande vuote e lunari, con qui e là qualche mozzicone di casa che aveva pazzescamente retto all’urto. (...) Le successive (e le precedenti) catastrofi accadute in Italia, naturali e no, confermano che il caso friulano resta un positivo capitolo a sé di rinascita e pertanto va diffuso, fatto conoscere e analizzato. Molto probabilmente è dipeso proprio da quei primi momenti, da come sorsero le tendopoli, da come la gente si organizzò, da come visse l’estate del 1976 fino alle scosse di settembre prima dell’esodo obbligato verso le località di mare, da come fece sentire la sua voce in un’epoca in cui la protesta correva attraverso i comunicati usciti dal ciclostile, da come i sindaci presero in mano la situazione rappresentando il punto decisionale di snodo fra potere politico e comunità. Aspetti nei quali non è estranea una consuetudine atavica dei friulani: la loro diffidenza nei confronti di chi comanda, al quale opporre un anarchismo che si esprime non con il ribellismo, ma con la concretezza nel costruire, nel fare, in una stabilità morale che trova uno dei principali simboli nella casa, totem assoluto che unisce il popolo friulano, sia quello che è rimasto sia quello sparso nel mondo dove lo ha portato l’emigrazione. (...)
Ma in settembre 2014 l'Austria non aveva detto no all'elettrodotto?
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