Terremoto a Trasaghis, le montagne caddero a pezzi
Messaggero Veneto, 18 aprile 2016
di Giacomina Pellizzari
TRASAGHIS. A 40 di distanza i ricordi vanno e vengono nella mente dell’allora vicesindaco, Ivo Del Negro, impegnato a documentare la memoria di un evento per restituirla alla comunità. Quella stessa comunità che, unita, fece sentire la forza di appartenenza a un territorio che non voleva vedere distrutto.
Fin dalle prime ore della tragedia, quando nel buio della notte intuiva la dimensione del disastro seguendo il rumore degli smottamenti che continuavano a scendere dalle montagne sopra Peonis, la gente reagì con coraggio sotto quel cielo tinto di rosso e tra la polvere che si sollevava nella vallata.
«Il 6 maggio ero a casa impegnato a completare la contabilità con un artigiano edile. Sentii la prima scossa, uscii e vidi il cielo sereno. “Non è un temporale, è il terremoto”, pensai». Fu un attimo, il tempo di un pensiero, e anche Del Negro, come tante altre persone, non riuscì più a muoversi. Il movimento sismico, ondulatorio e sussultorio, gli impediva di camminare, di raggiungere la famiglia nelle altre stanze.
Lo fece poi, portando moglie e figli all’aperto. Percorse le strade buie di Peonis chiamando a uno a uno i capifamiglia, si stupì quando scoprì che il sonno di un’anziana signora era più pesante del terremoto. A differenza del resto della popolazione che si riversava nei prati, la nonna non sentì nulla e rimase nel suo letto. Si risvegliò il giorno dopo quando la cercavano in molti, compresa la figlia, credendola morta.
Nel caos di quella notte, Del Negro non poteva ignorare il fumo bianco che copriva Trasaghis. Tanto meno il rumore dei sassi che continuavano a rotolare lungo i versanti delle montagne. «Vado a Trasaghis» disse alla moglie che tentò, disperatamente, di fermarlo. Imboccò la strada e quando giunse in fondo al paese incrociò l’auto di Bulfon, sul sedile posteriore c’era l’unico ferito di Peonis.
«Lo adagiai piano piano sulle mie ginocchia e partimmo. Tentammo - racconta Del Negro - di dirigerci verso Cornino per raggiungere San Daniele, ma un chilometro dopo la strada era impercorribile. I massi avevano invaso la carreggiata». Bulfon svoltò verso Trasaghis per tentare di raggiungere l’ospedale di Gemona, ma anche in questo caso non riuscì a percorrere più di un chilometro. Non c’era nulla da fare, Peonis era isolata.
«Tornammo verso il paese, ci fermammo davanti al bar di Romano Mamolo, e qui Cucchiaro morì. Avvicinammo alcuni tavoli sui quali sistemammo la salma». Un’ora dopo Del Negro si mise in cammino verso Trasaghis. A piedi, da solo, iniziò a percorrere la strada.
«Camminavo sui massi che continuavano a scendere, accompagnato dal rumore continuo delle frane». Non pensò al pericolo che stava correndo, a guidarlo era il senso del dovere nei confronti di una comunità in ginocchio. Alle 23 arrivò a Trasaghis, passando per Avasinis dove i giovani del paese stavano già scavando a mani nude.
«A Trasaghis vidi il bar crollato, iniziai a scavare anch’io per recuperare morti e feriti». Non potrà mai dimenticare quei momenti. «All’alba arrivarono i primi militari del Genio e i bersaglieri della brigata Garibaldi da Pordenone. Alle 7.30, con gli operai della Sip, avevamo già installato un telefono pubblico. Telefonavamo in tutto il mondo, i nostri concittadini all’estero dovevano sapere cosa stava accadendo in Friuli».
Dall’altro capo del filo i parenti preoccupati cercavano informazioni, volevano sentire le voci dei loro cari, ma in alcuni casi quelle voci erano rimaste soffocate sotto il peso delle case.
Alle 10 arrivò l’ambulanza dall’ospedale di Mestre con un medico che, negli anni successivi, tornò più volte a Trasaghis. Del Negro non perse tempo raccontò ai militari l’isolamento di Peonis che aveva impedito a un ferito di arrivare in ospedale.
I soccorritori non esitarono a mettere in moto una pala meccanica per aprire la strada all’ambulanza. «Partimmo alle 10, per percorrere cinque chilometri impiegammo tre ore» ricorda l’ex vice sindaco. Appena giunto a Peonis, l’amministratore chiese subito al capitano dei carabinieri e al medico di constatare la morte di Cucchiaro, deceduto a seguito del trauma alla nuca provocato dalla caduta di un sasso staccato dalla parete della stalla.
Mai precauzione fu più azzeccata perché, una settimana dopo, l’allora procuratore della Repubblica di Tolmezzo chiese di riesumare la salma. «Non con gli operai del Comune» rispose l’ex vicesindaco facendogli notare che le temperature elevate di quei giorni non consentivano di rispettare i tempi della Procura.
Due giorni dopo la morte, infatti, a Peonis venne celebrato il funerale. In tutta la zona terremotata, l’urgenza più grossa era seppellire le vittime allineati negli spazi aperte. Ma nonostante ciò, il vicesindaco, convocato in Procura a Tolmezzo, dovette giustificarsi. Furono determinanti le testimonianze del capitano dei carabinieri e del medico. Chiusa la parentesi burocratica, l’attenzione tornò su Trasaghis dove il numero dei morti continuava a salire.
Nella frazione di Alesso mancavano all’appello Dario Picco e Caterina Cavan. Gestivano il bar “Sport” a Gemona, li trovarono lì, sotto le macerie. A Braulins, invece, piangevano un bambino. Il dolore emergeva in tutta la sua drammaticità la sera, di giorno non c’era tempo per sfogare le emozioni, bisogna allestire le tendopoli e aiutare i militari a creare le cucine da campo. Nelle frazioni i pasti venivano recapitati con gli elicotteri.
Il tempo scorreva anche se ai terremotati sembrava che tutto si fosse fermato alle 21 e una manciata di secondi del 6 maggio 1976. Quell’apparente normalità venne nuovamente minate dalle piogge che, una settimana dopo, era il 13 maggio, si accanirono contro i terremotati.
La tendopoli di Trasaghis andò sott’acqua e fu necessario spostarla. Quando tutto sembrava a posto il monte Brancot fece sussultò nuovamente e rovesciò una quantità enorme di ghiaia e sassi su Braulins. A casa Del Negro il telefono squillò dopo la mezzanotte.
Era necessario tornare in quel luogo dove la gente dalla paura aveva attraversato il ponte e si era rifugiata a Osoppo. Qui sorse la tendopoli e qui furono trasferiti anche gli anziani che non volevano lasciare il loro paese. La frana aveva travolto il centro di Braulins, i massi erano più grandi delle case. Le perizie geologiche non lasciarono spazi a compromessi: il paese andava costruito più a valle.
La stessa sorte tocco all'abitato di Trasaghis, del vecchio agglomerato rimase solo la chiesa. Oggi come allora la chiesa resta il fabbricato più alto del paese. «Avevamo l’acqua fino al ginocchio, il vento gonfiava e sbatteva la tela fradicia delle tende, mentre il Tagliamento, fuori, mugghiava» dichiararono i terremotati disperati perché avevano capito che il dov’era e com’era a Trasaghis e Braulins non poteva essere applicato.
Fermate temporaneamente le frane, nelle tendopoli la normalità, se di normalità si può parlare, si fece largo. Subì una battuta di arresto a fine luglio con la partenza dei militari. La cucina da campo non c'era più e le famiglie dovettero attrezzarsi con i fornelli dentro e fuori le tende. Dal punto di vista logistico, iniziò il periodo più tormentato nel quale trovarono spazio anche gli slogan “dalle tende alle case”.
La gente capiva che questo percorso era impercorribile, ma la paura di restare per sempre nelle baracche come rischiava di accadere in Belice, le faceva rifiutare i prefabbricati che, invece, arrivarono a novembre e nella primavera dell'anno successivo. Iniziò la stagione dei confronti.
«Il Comune di Trasaghis fu uno dei primi a eleggere i Comitati delle tendopoli con regolare votazione. Tutte le settimane divulgava pure un bollettino. Siamo stati i primi, anticipando la norma di Zamberletti, a pubblicare le donazioni: dalle mille lire ricevute da un bimbo delle elementari ai 100 milioni del giornale “La nazione”, ai 20 milioni raccolti da “La Stampa” di Torino, ai 10 milioni del “Corriere della sera”, altrettanti del “Secolo XIX” di Genova».
In Friuli arrivò un mare di aiuti: «Il bilancio approvato dal Comune di Trasaghis alla fine del 1975, pareggiava a 376 milioni di vecchie lire, dal 7 maggio al 31 dicembre incassammo 630 milioni in contanti al netto di tutte le grandi donazioni» sottolinea Del Negro ricordando gli scambi di vedute con don Giulio, il parroco di Alesso vicino al movimento delle tendopoli, espressione della Chiesa. «La Chiesa - riconosce l’ex vicesindaco del Pci - ha avuto un ruolo importante, l’arcivescovo Battisti ha dimostrato una grande umanità e vicinanza nei confronti dei terremotati».
In quell’estate, la gente continuava a guardare i versanti dei monti Covria e Brancot. Lo stesso facevano i geologi e i tecnici incaricati dalla Comunità montana di redigere le perizie: si trattava di decidere se autorizzare o meno la ricostruzione di Trasaghis e Braulins lì dove erano sempre stati. Non fu così, i paesi furono spostati più a valle.
«La gente capì - assicura Del Negro -, era una questione di sicurezza. Tutti i piani particolareggiati e di ricostruzione avevano come base le perizie geologiche. Quando installammo i prefabbricati sapevamo che la parte vecchia di Trasaghis e Braulins non sarebbe stata ricostruita ecco perché i villaggi provvisori sorsero poco distanti dalle nuove case».
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