"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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giovedì 5 maggio 2016

Memorie dal 6 maggio - 11 - Quella notte, sul terrazzo roccioso di Mena (e il senso, poi, di una ricostruzione partecipata)

A Cavazzo le montagne si sfaldarono, Cesclans e Somplago isolate

L’ex sindaco Barazzutti racconta la paura del terremoto, tra i massi che minacciavano i paesi.La terra aveva tremato così violentemente da rendere instabile il materiale lungo il versante del monte Festa. Altrettanta paura faceva la perizia geologica effettuata sulla rupe di San Candido.


CAVAZZO CARNICO- Eletto l’anno prima nelle file del Partito di unità proletaria, Barazzutti faceva parte dell’esecutivo con a capo l’esponente del Movimento Friuli, Cornelia Puppini.
Il sindaco era anche consigliere regionale e l’assidua presenza a Trieste la costrinse a delegare la gestione dell’emergenza a Barazzutti che nel 1977 ricevette il testimone dal consiglio comunale. Guidò il Comune fino al 1995.
La sera del 6 maggio, l’allora assessore era a Mena, nella casa dei genitori. Fu lui a invitare tutti i componenti della sua famiglia a spostarsi sotto un arco di pietra. Uscirono sani e salvi quando la scossa terminò. In quell’angolo di Friuli circondato a est dai monti Festa e San Simeone, a nord dall’Amariana e a ovest dalla chiesa di Cesclans, vedevano «l’agonia del campanile».
Una scena da incubo che tutte le volte che la terra tremava faceva dire alle donne «chissà cosa succede?». Nessuno poteva saperlo, di certo era solo che la gente di cantiere, muratori e carpentieri dalla manualità innata, si mise subito al lavoro e costruirono autonomamente le baracche.
«La gente si è mossa subito. 13 famiglie vennero in municipio a chiedere i materiali: “ci arrangiamo da soli” mi dissero». Barazzutti ricorda con orgoglio quello slancio che arrivava dal basso e con altrettanto orgoglio cita il rimborso che il commissario, Giuseppe Zamberletti, riconobbe al Comune per i costi non sostenuti.
«Nell’emergenza Cavazzo ebbe la fortuna di avere nel capoluogo una caserma di militari. Da loro - assicura l’ex sindaco - ricevette tutto l’aiuto possibile già nella stessa nottata del 6 maggio grazie anche alla grande disponibilità del comandante, il capitano Cattelan, che si mise a disposizione del comune. Come del resto decise Zamberletti affidando a ogni sindaco un comandante militare».
Cesclans. Lo stesso spirito emerse a Cesclans, la frazione isolata che il commissario voleva sgomberare. «La strada corre in una gola qui scorre il torrente e da ambo i lati ci sono alte rupi da dove si erano staccati massi enormi. I funzionari del commissario - continua l’ex sindaco - mi accompagnarono in elicottero davanti all’ex scuola per convincere la popolazione a spostarsi. Mi opposi perché la gente non voleva lasciare quel luogo. Tornai a Cavazzo e non si fece nulla».
A chi era nato e cresciuto tra quei dirupi bastò uno sguardo e, senza fare rumore, la gente aprì la strada fatta molto tempo prima dai militari. «L’aprirono da soli, non ho mai saputo - rivela Barazzutti - da dove era arrivata la pala meccanica».
A Cesclans la situazione «era bestiale». Usiamo le parole dell’ex sindaco per descrivere una realtà che solo apparentemente sembrava solida. «Il paese - spiega Barazzutti - è collocato su un piano di roccia non compatto, composto da grandi blocchi con fratture fra loro. Ogni blocco si comportava diversamente. Tant’è che in via Liberale, detta Vidon, la strada parallela a via Fontana rimasta intatta, le ruspe hanno demolito tutto».
L’amministrazione fu costretta ad approvare un Piano di edilizia economica popolare (Peep) per spostare gran parte del paese. La gente capì e non si oppose agli espropri.
Somplago. Fu sicuramente più difficile spiegare agli abitanti di Somplago che per mettere in sicurezza il paese era necessario costruire un muro in cemento armato alto otto metri. La perizia geologica non lasciava alternative: la rupe di San Candido si muoveva e nei millenni erano scesi massi grandi come case.
Nel corso del sopralluogo i geologi misurarono una fessura larga un centinaio di metri. La monitorarono con i sensori collegati a un semaforo installato sulla strada statale all’entrata e uscita di Somplago. Se il semaforo si accendeva non si passava.
E quella luce si accendeva spesso. «Era un problemone» ammette l’ex sindaco elencando le ipotesi vagliate dai tecnici per risolverlo. «La prima prevedeva la demolizione della rupe, ma era una soluzione pazzesca e venne scartata. La seconda puntava sull’installazione di una grande impalcatura partendo dalla base per riuscire a battere enormi chiodi dentro la rupe».
«Da un punto di vista tecnico ed economico era una cosa folle. Alla fine - aggiunge Barazzutti - si optò per la costruzione del muro lungo la strada statale. Fu una soluzione giuridica. Lo Stato intervenne per difendere il paese da un pericolo presente, ma l’efficienza del muro è tutta da verificare».
Le parole del sindaco non sono tranquillizzanti. «Molto dipenderà da come, quando e se accadrà, la rupe si staccherà. Se il blocco sarà rotondo o spigoloso, non c’è alcuna certezza». Se poi, 40 anni fa, un abitante di Somplago pensava che sotto la rupe di San Candido passava l’oleodotto transalpino, non dormiva sonni tranquilli.
Da qui la decisione di «portare materiale sopra il tracciato dello stesso oleodotto che facesse da cuscino». Stando al pericolo rappresentato dalla rupe di San Candido, un terzo del paese avrebbe dovuto essere sgomberato.
Ma anche questo era un problema perché se a sud c’era l’ex alveo del lago che amplificava le scosse sismiche, a est c’era l’autostrada contro la quale Comune e Regione andarono a sbattere quando non si accorsero che il Peep, approvato per costruire le nuove case, non rispettava la distanza di sicurezza».
Questa era la situazione geologica a Cavazzo. Una situazione complessa che la gente sfidò. Da Somplago, infatti, nessuno si spostò. Qualcuno scese da Cesclans a Cavazzo, ma lo fece sempre per libera scelta. A Mena, invece, era tutto più tranquillo perché, la sera del 6 maggio, il paese situato su un’emergenza di roccia si mosse compatto.
Nelle tendopoli. I terremotati non accettavano scelte calate dall’alto. Esponevano i problemi in municipio davanti al sindaco e li analizzavano nelle riunioni dei Comitati delle tendepoli. Qui, per formazione politica, militava anche Barazzutti. «Lo facevo - rivela - senza mettere in secondo piano il mio ruolo istituzionale. Informavo la gente su cosa bolliva in pentola».
Nel coordinamento dei comitati delle tendopoli prima e delle baraccopoli poi erano due le correnti: la Chiesa rappresentata da monsignor Duilio Corgnali e l’anima più politica con Barazzutti in testa. La contrapposizione era evidente quando una delle due anima organizzava una manifestazione e l’altra rispondeva con una contro manifestazione.
«A Trieste protestammo sotto il palazzo della Regione, scese Comelli, balbettava. Quella fu una manifestazione massiccia». La gente protestava per i ritardi che aveva accumulato la Regione prima del 15 settembre. «C’era stata una non intesa tra Zamberletti e la Regione che tardava a occupare le aree per i prefabbricati. A frenare era la Coldiretti, una forza importante per la Democrazia cristiana. A settembre cambiò tutto: Zamberletti aveva pieni poteri e mandava i suoi tecnici».
Barazzutti apprezza tutt’ora il metodo del commissario: «Non ha mai - spiega - assunto decisioni senza averle concordate con il sindaco del posto. Avendo pieni poteri poteva anche non farlo». A vigilare sul meccanismo era la gente.
Nel modello Friuli la partecipazione popolare venne poco valorizzata perché, sempre secondo Barazzutti, «appena la ricostruzione finì, la Regione ripassò al centralismo. Politicamente, i sindaci erano cresciuti troppo. Erano concorrenti pericolosi perché stavano sul territorio, mentre loro stavano a Trieste».
I prefabbricati. Oltre alle 13 baracche realizzate in proprio, Cavazzo aveva a disposizione i container canadesi e le casette fornite dalla Federazione mondiale luterana. L’amministrazione convinse Zamberletti ad acquistare e installare le case Rubner.
Fu una scelta lungimirante perché buona parte di quelle casette furono acquistate dai privati. A Cesclans nel villaggio del colle dal Nibli ha sede l’associazione scout di Cormòns che con un contributo regionale ha trasformato i prefabbricati dei terremotati in un villaggio per vacanze degli scout.
La ricostruzione. Approvati i piani particolareggiati, i cittadini potevano agire privatamente presentando il progetto che veniva finanziato, delegare la ricostruzione al comune il quale poteva, a sua volta, anche procedere con interventi pubblici diretti per comparti.
«Soprattutto - spiega Barazzutti - dove riteneva di garantire soluzione urbanistiche adeguate». E se la legge 17 era una «legge da ottimismo assoluto, «il terremoto fu “provvidenziale” altrimenti saremmo con quei rabberci lì». La legge 30 fu emanata nel giugno 1977 quella della ricostruzione a dicembre dello stesso anno.
Fu un momento di incertezza oggettiva, la gente non sapeva se riparare o demolire le case e a quanto ammontava il contributo». La stessa incertezza regnava nelle amministrazioni. Le ordinanze di demolizione venivano firmate solo se le case rappresentavano un pericolo sulla pubblica via.
In questo contesto entravano in azione il gruppo B assegnato al Comune e il gruppo A a disposizione dell’assessorato regionale. «In una scelta politica di decentramento e ricostruzione, c’era il pericolo che ogni comune andasse per conto proprio. Stabilisse regole di progettazione ed elaborasse capitolati d’appalto per conto suo. Il compito del gruppo A era quello di stabilire come si progettava, predisporre un capitolato tipo e un prezziario valido per tutti. Soluzione egregia della Regione - riconosce l’ex sindaco -, decentramento da un lato e coordinamento dall’altro».

1 commento:

  1. In merito ad alcuni particolari descritti nell'articolo, Barbara D'Agaro, in un messaggio al sito del giornale - e poi su fb - ha precisato: "Per il rispetto che devo ad una parte della storia e non solo a mia madre, mi sento di chiarire quanto leggo in questo articolo: “Il sindaco (Cornelia Puppini, mia mamma, appunto) era anche consigliere regionale e l’assidua presenza a Trieste la costrinse a delegare la gestione dell’emergenza a Barazzutti, che nel 1977 ricevette il testimone dal consiglio comunale.”
    Sicuramente Cornelia aveva un forte senso del dovere e assolveva con scrupolo al suo ruolo di consigliere regionale, ma che questo la costringesse a dare la gestione dell'emergenza a Barazzutti, bè, mi sembra un'espressione che farebbe rivoltare mia madre nella tomba.
    Ero piccola, in più poi sfollata con molti di noi, piccoli e vecchi, sul Lago Maggiore. Ma per una vita ho ascoltato racconti e racconti e posso dire che, se mia madre su costretta a dimettersi, fu per sfinimento, fu per la stanchezza di dover affrontare consigli che si protraevano fino ad ore piccole (e mi sento di dire ad arte, ma si sa, sono di parte), fu per l'attacco logorante di chi la voleva altrove.
    Eppure quella notte fu lei ad andare per il paese per accertarsi di eventuali vittime, (come ho sentito un infinità di volte) ad inoltrarsi nei cunicoli della centrale elettrica di Somplago.
    “ e che paura che fanno quei posti”...
    Insomma sicuramente a me mancano dei pezzi, ma dal Maggio 1976 al 1977 quando subentrò F. Barazzutti , fu Cornelia Puppini il sindaco di Cavazzo Carnico, e , se un po' posso pensare di averla conosciuta, non penso che abbia delegato gran che. Ameno questo venga riconosciuto."

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