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Considerazioni dopo le cerimonie sul terremoto
Lo scorso 6 maggio, il Friuli ha ricordato quella lontana notte di quarant’anni fa che sconvolse le nostre vite segnando anche un preciso spartiacque in noi friulani: “Prima e dopo il terremoto”!
Tanti furono “fortunati” nel perdere solo la casa mentre, a molti, costò anche la vita: cioè tutto!
I Comuni terremotati per ricordare questa tragedia danno vita, dall’ormai lontano 1977, a cerimonie commemorative le quali, non limitandosi al solo raccoglimento e al ricordo, ultimamente secondo me e pur senza volerlo, scivolano su comportamenti festaioli privi di proposte e ricerca di soluzione alle tante problematiche che minano il futuro dei nostri giovani.
Una ricostruzione, la nostra, che da un punto di vista edilizio è ben riuscita, ma carente di adeguate attenzioni nella ricostruzione di un tessuto sociale e culturale conseguenti la perdita dei luoghi natii su cui si basava la nostra identità.
Inoltre, quarant’anni hanno portato via anche molti superstiti di quella tragica sera, nuove generazioni si affacciano sulla scena sostituendo, (non certo con l’aiuto della Fornero), anche noi vecchietti.
Lentamente, ma inesorabilmente, vedo quindi lo spirito che animò la ricostruzione perdersi nel tempo e, come accade per altre ricorrenze, il presenzialismo e l’oratoria fine a se stesse esaltano solo la capacità di risorgere materialmente dalla distruzione: non certo quella del motore da cui effettivamente derivava questa energia.
Dovrebbero invece essere il trampolino di incontri ove promuovere anche progettualità e scelte per il futuro, non come quell’automobilista che tenendo fisso l’occhio sullo specchietto retrovisore, rischia di tamponare chi lo precede.
Bene dunque ha fatto il Presidente della Repubblica nel riassumere questa ricorrenza in poche parole:
“Grazie Friuli per aver dato all’Italia questa lezione!”
Quanto accadde in Friuli per il Capo dello Stato assume valenza di nobile esempio di lavoro fatto con onestà, serietà e frutto, di conseguenza, dell’immediata reazione ad un disastro a cui i friulani seppero far fronte pensando al domani che prevedeva prima il lavoro, poi le case e, infine, le chiese: guarda caso tutto ciò che aggrega una comunità.
Ovviamente e giustamente l’orgoglio di questi risultati è oltremodo corretto mostrarli all’Italia e al mondo, anche perché nessun ringraziamento può essere più sincero nel permettere di verificare concretamente i frutti dell’aiuto ricevuto.
La medaglia d’oro concessa al popolo friulano d’altronde parla chiaro!
Un popolo che grazie a politici lungimiranti e all’ombra del coraggioso motto popolare: “I fasin di bessoi”, riuscì a convincere lo Stato a non imporre inutili pastoie, demandando alla Regione l’emanazione di leggi sagge che permisero ai Sindaci di calendarizzare immediatamente i Piani di abbattimento dei ruderi, individuare le aree dei prefabbricati provvisori, poi i Piani Regolatori ed urbanizzazioni tramite la creazione di uffici specifici nei quali, tanti giovani locali, furono chiamati a predisporre ed iniziare immediatamente quella Ricostruzione di cui tutti noi andiamo fieri.
A questi figli del Friuli, di cui rammento ancora il volto ed il nome, in silenzio sopportarono oltre al lavoro anche le proteste, il nervosismo e le paure di un popolo mai domo che temeva di non risorgere più, a cui va il mio piccolo ringraziamento oltre al ricordo di una gioventù condivisa e trascorsa insieme nel fango e nella polvere, in precarie baracche, chinando il capo non solo per timidezza giovanile, ma perché consci di lavorare per il bene della nostra gente.
Peccato che nessuno abbia mai accennato a questo piccolo esercito che in difficili situazioni contribuì non poco alla rinascita della nostra terra.
Ecco dunque dove sta il nocciolo della nostra ricostruzione materiale! In quelle quattro parole spontanee: “I fasin di besoi” si racchiudeva lo spirito friulano che da sempre si ribella alla mala sorte tipica di queste terre, infondendo anziché rassegnazione, voglia di lottare e rinascere soprattutto con il sudore della propria fronte.
Come già in passato dissi, presi com’eravamo dal lavoro giornaliero e da una certa fretta, ci siamo però dimenticati di conservare ciò che in fondo erano le nostre radici: soprattutto il borgo, dentro il quale scorreva lenta una vita carica di valori che andavano oltre il materiale.
Condivido pertanto quanto affermato da un giovane scrittore friulano, Pier Luigi Capello il quale, ancora bimbetto al tempo del terremoto, il 6 maggio scorso in una intervista rilasciata alla RAI affermava: “ Le case ed i luoghi antichi su cui esse poggiavano, erano sorgente primaria di identità del nostro popolo, al pari della lingua che per l’Italia intera non è l’italiano, bensì quella locale! Paesi e lingua dunque: due fari che illuminano da sempre la memoria ed il lascito di una cultura natia e che purtroppo, per noi é in parte perduta”.
Ecco perché, da tecnico, fui sempre contrario all’espansione abnorme dei nostri paesi in cui, tanta gente, ha sì una casa e un bellissimo giardino, ma ha perso quel contatto umano che grazie ai borghi e agli spazi raccolti, respirava lo spirito di appartenenza ad una comunità, oltre all’umana solidarietà ed una crescita socio/culturale comune a tutti, garantendo ai bambini una frequentazione quotidiana in cui assimilare quei valori che piano piano, insieme, generavano gli adulti del domani.
Il motto “dov’era e com’era” purtroppo non ha retto fino in fondo e, alle scatole vuote delle case ricostruite nei centri storici semi deserti, temo l’affiancarsi di altrettante scatole umane prive d’identità e che, un giorno, formeranno la società futura in cui, onestamente, non mi sento fin d’ora di far parte.
Dino RABASSI
Document bielonon. Compliments a Dino RABASSI
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