"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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domenica 27 gennaio 2013

Giornata della memoria, la testimonianza di Rino di Cian su Buchenwald


Rino Picco, dal San Simeone a Buchenwald (e ritorno)


Rino Picco "di Cian", classe 1923, venne catturato dai tedeschi sul San Simeone nel luglio 1944, per rappresaglia contro le azioni partigiane, e spedito, con altri suoi compaesani, a Buchenwald. La sua testimonianza è stata raccolta e pubblicata nel libro di Anselmo Picco "Cuant che las caneles a cressevin tai boçs da conserve" (Comune, Pro Loco e Ana di Bordano, 2012). Si tratta di una testimonianza, della quale vengono riproposti ampi stralci, che può inserirsi  a buona ragione nelle riflessioni condivise sulla "giornata della memoria".

I tedeschi ci accompagnarono, in fila, attraverso Pioverno fino a Venzone. 
A Pioverno era pieno di soldati, sempre tedeschi, con il mitra spianato 
e così anche a Venzone: era impossibile tentare la fuga. A Venzone ci concessero 
un’ora e mezza di tempo per cercare dei vestiti e da mangiare. 
Andammo tutti da una signora, nativa di Bordano, mi sembra 
fosse la sorella di Gusto di Sella Grande, la quale ci diede qual- 
che indumento e un po’ di cibo. Anche da qui era impossibile 
scappare perché c’erano soldati dappertutto e una nostra fuga 
avrebbe potuto scatenare le ire dei tedeschi e concludersi con 
delle rappresaglie ai danni della popolazione venzonese. 
   Trascorsa l’ora e mezza concessaci, arrivò a chiamarci un 
soldato, il quale ci fece salire su una camionetta che ci portò in 
prigione a Udine in Via Spalato.
Rimanemmo qui per otto giorni, dormendo sul pavimento di 
 un corridoio, ignari sulla nostra destinazione futura. 
    Trascorso questo periodo, ci fecero uscire dal carcere per 
 recarci a Porta Gemona, dove ci avrebbero arruolati nella Re- 
 pubblica di Salò. All’uscita ci consegnarono tre pezzi di pane e 
 in quel momento Gjino, mio cugino, mi disse che la nostra desti- 
 nazione non era sicuramente Salò, ma era un luogo certamente 
 più lontano, vista la quantità di pane che ci avevano distribuito. 
 Fu proprio così: anzichè partire per Salò, ci inviarono per “via 
 Tarvisio”, cioè verso l’Austria. 
    Ci accompagnarono in stazione e lì salimmo su un treno che 
 proveniva da Trieste, e fu a questo punto, prima della partenza, 
 che noi compaesani fummo separati.

Verso le sette di sera il treno passò per Tarvisio per poi fermarsi a 
Villacco dove ci diedero da mangiare un po’ di zuppa 
di cavoli rossi. Proseguì poi alla volta di Lienz. Qui ci fecero 
scendere per fare i bisogni sotto il treno, fra le rotaie. La sosta 
durò circa trenta minuti. Infine da qui proseguimmo ininterrot- 
tamente fino a Mauthausen, dove ci tennero rinchiusi nei vagoni 
per tutto il giorno, poi l’indomani ripartimmo e viaggiammo 
per altri due giorni. Arrivati in una stazioncina, della quale non 
ricordo il nome, ci fecero scendere sempre per fare i bisogni. A 
controllare che non scappassimo c’erano delle belle ragazze in 
divisa e con lapistole Machin spianata. Proseguimmo il viaggio 
per concluderlo nel campo di concentramento di Buchenwald. 
   Scesi dal treno, ci radunarono in un grande piazzale dove restammo sotto il sole cocente per tutto il giorno senza nè cibo,  nè acqua. 
   Dalla piazza ci portarono nel capannone di una fabbrica do- 
ve ci raparono a zero tagliandoci tutti i peli che avevamo sul 
corpo. Il giorno seguente, a gruppetti di tre per volta, ci fecero 
sedere sul bordo di una vasca contenente dell’acqua torbida, 
come quella che scende quando il Tagliamento è in piena. Qui, 
un tedesco, ci colpì al petto con il calcio del mitra, facendo- 
ci cadere all’indietro in questa vasca. Fortunatamente feci in 
tempo a chiudere gli occhi proteggendoli da questo liquido che 
immagino contenesse un potente disinfettante, poichè il giorno 
dopo, avevo i testicoli molto ingrossati e doloranti tanto che 
non riuscivo neppure a camminare, come dolenti erano anche 
le ascelle e l’ano. 
   Dopo questo trattamento ci consegnarono la divisa a strisce 
con una “I” (italiani) inserita in un triangolo rosso cucito sul 
petto. Eravamo senza mutande e senza alcun altro indumento in- 
timo. Ci fecero una puntura con una siringa che veniva riempita 
ogni sei uomini trattati, senza che mai l’ago venisse cambiato. 
   In un primo momento mi avevano destinato al blocco qua- 
rantatré (baracche), poi mi spostarono al sessantotto. Lì non 
c’erano letti sui quali dormire e bisognava passare la notte stesi 
sul pavimento. A pochi centimetri dal mio giaciglio, correva un 
canale con dell’acqua, dove le persone venivano a fare i propri 
bisogni. L’odore che dovevamo sopportare è facilmente imma- 
ginabile. I blocchi erano a due piani ed eravamo circa in cento 
persone di varie nazionalità, per la maggior parte vi erano russi, 
polacchi e slavi. I polacchi ce l’avevano a male con noi italiani 
perchè ci accusavano di essere stati tutti dalla parte dei fascisti, 
quindi alleati dei tedeschi durante il conflitto. 
   La colazione consisteva in un caffè nero e in una tartina con un 
po’ di margarina. Nei primi giorni, noi di Bordano, eravamo insie- 
me e non ci facevano lavorare, ci chiamavano solo per l’appello. 
   Qui ci tennero per otto giorni, poi ci riportarono in stazione 
dove salimmo su una tradotta che, dopo aver attraversato tre  grandi 
città, si fermò ad Allen. A poca distanza da questa stazio- 
ne scorgemmo parcheggiati un’infinità di carri armati, camion e 
altri mezzi bellici. Ad un certo punto suonò l’allarme: i tedeschi 
velocemente chiusero dall’esterno i vagoni dove ci trovavamo e 
si misero al riparo. L’allarme era suonato perchè una squadriglia 
di aerei americani era venuta a bombardare i mezzi militari che 
avevamo scorto a poca distanza dalla stazione. In poco tempo 
si scatenò l’inferno e noi eravamo chiusi in questi vagoni senza 
la possibilità di scappare per metterci in salvo. Fortunatamente 
il nostro convoglio non fu colpito, forse perchè lo sforzo belli- 
co degli alleati era concentrato sullo scalo dove vi erano tutti i 
mezzi corazzati da distruggere. 
   Dopo questo attacco, ci riportarono indietro a Buchenwald 
dove, come ho già detto, eravamo in molti e provenienti da 
ogni nazione. I più maltrattati erano i russi, li ricordo ancora, 
avevano il fisico molto mal ridotto e il “viso sembrava ricoperto 
di muschio”. 
   Alle quattro del mattino c’era l’appello e dovevamo trovarci 
puntuali sul piazzale, dopo esserci lavati. Ci facevano rimanere 
anche alcune ore con le braccia alzate e se qualcuno, per sfi- 
nimento, le abbassava, veniva colpito col nerbo. Poi ci davano 
la colazione e alle undici il pranzo che consisteva in un po’ di 
zuppa; alle quindici invece ci davano da mangiare un pezzo 
di aglio, che da quella volta ho sempre continuato a mangiare 
mentre prima non mi piaceva assolutamente. 
   Durante uno di questi giorni, dopo aver fatto l’appello, venne- 
ro formati dei gruppetti di prigionieri e noi di Bordano fummo 
divisi: Liseo, Gjino e Aldo da una parte; io, Duilio ed Elio da 
un’altra. Ricordo che ad un certo punto un tedesco chiese se 
c’era qualche volontario disposto a passare dal nostro gruppo a 
quello dei nostri compaesani. Duilio ci invitò allora a trasferirci 
per rimanere tutti uniti, ma Elio si rifiutò, dicendo che doveva- 
mo restare dove il destino ci aveva fatti capitare. Liseo,  Gjino e Aldo partirono quindi per una destinazione sconosciuta e non 
tornarono mai più. Seppi molti anni dopo, da Diego, un mio 
amico di Ospedaletto, che li avevano portati a lavorare in una 
miniera di sale e che qui avevano trovato la morte. 
   A Buchenwald ci tennero ancora otto giorni. In seguito c’era 
stato un bombardamento: era il 24 agosto del ’44. Alle ore undi- 
ci precise suonò l’allarme; noi ci apprestavamo a fare la doccia, 
ma alcuni prigionieri ci avevano detto di stare attenti perchè a 
quelli che erano andati a “lavarsi” prima di noi, anzichè aprire 
il rubinetto dell’acqua, i tedeschi avevano aperto il rubinetto 
del gas. Anche in questo caso la fortuna ci assistette perchè, in 
seguito al bombardamento, sospesero il “servizio doccia”. 
   Durante questo attacco venne ferita la “nostra” principessa 
Mafalda di Savoia. La vidi seduta con il gomito appoggiato ad 
un tavolino, mentre con la mano sorreggeva la testa. Aveva 
tutto il viso insanguinato e anche il vestito era sporco di sangue 
all’altezza del petto. Seppi in seguito che era morta quel giorno 
o forse il giorno dopo. 
   L’indomani io ed Elio fummo mandati a riparare il selciato 
danneggiato dalle bombe nella zona dei forni crematori. Mentre 
eravamo impegnati in questo lavoro vedemmo passare per tutto 
il giorno ed entrare nella zona del forno, carrelli che si muove- 
vano su rotaie (come quelli che si vedono nelle miniere) che 
trasportavano morti o feriti. I carrelli entravano pieni e uscivano 
vuoti dalla parte opposta. Ricordo che Elio, sconsolato, mi disse 
che anche noi saremmo probabilmente finiti su quei carrelli. Era- 
no quelli i momenti in cui ci scoraggiavamo di più e perdevamo 
le speranze di riuscire a tornare a casa. 
   Dalla ciminiera del forno uscivano le fiamme, alte quattro 
o cinque metri sopra il camino e il fumo spandeva nell’aria un 
odore irrespirabile di carne umana bruciata. 
   Ogni sera tornavamo nel nostro blocco a dormire. Tutti i 
blocchi erano circondati dal filo spinato e non potevamo uscire 
da quel recinto se non accompagnati dai tedeschi, i quali avevano anche messo, a capo dei blocchi, dei prigionieri polacchi 
molto spietati, infatti dovevano comportarsi in questo modo per 
rimanere nelle grazie delle SS, così da rendere la loro prigionia 
meno dura. 
   Si lavorava tutta la settimana, tranne la domenica pomeriggio, 
quando potevamo riposarci. Eravamo talmente mal nutriti e de- 
boli che per sollevare e trasportare un rotolo di carta catramata 
dovevamo essere in quattro persone. 
   Ricordo un particolare che mi è sempre sembrato strano: 
quando ci tagliavano i capelli, non ci rasavano tutta la testa con- 
temporaneamente: una settimana ci rasavano facendo una stri- 
scia che partiva dalla fronte per giungere alla nuca, la settimana 
successiva facevano un’altra striscia che partiva dall’orecchio 
destro per arrivare a quello sinistro e ogni volta, nei tagli succes- 
sivi, seguivano questo schema. Praticamente in testa avevamo 
sempre un taglio che rappresentava una croce. 
   Nel campo vi era anche un’infermeria. Era gestita da medici 
prigionieri che lavoravano sotto il controllo dei tedeschi. Un 
giorno fui ricoverato in questa infermeria a causa di un grande 
mal di gola. Ero curato da un medico francese, il quale mi aveva 
detto che non mi avrebbe fatto uscire da lì prima di essere gua- 
rito completamente. I nazisti erano venuti più volte a cercarmi 
per farmi tornare a lavorare, ma il medico era riuscito a mante- 
nere la parola data e così ripresi il mio lavoro solo a guarigione 
avvenuta.  (…)
Alcuni giorni prima della liberazione, ci fu un bombardamento che durò per tutta la notte e distrusse molte fabbriche e la ferrovia. 
    Alle ventitré suonò l’allarme e noi ci riparammo nei rifugi 
 sotterranei. Il rifugio era stretto, praticamente si stava in ginoc- 
 chio e le ginocchia di uno toccavano quelle dell’altro: eravamo 
 ammassati come sardine in scatola. Il campo di concentramento, 
 dopo l’incursione aerea, era rimasto miracolosamente intatto. 
 Era la fine di febbraio o forse l’inizio di marzo. Finito il bombar- 
damento ci riportarono nel campo e alle quattro ci fecero alzare, 
lavare nel cortile come ogni giorno e alle sei ci riportarono a 
lavorare nella fabbrica che non era stata danneggiata. Il rifugio 
antiaereo era situato tre piani sotto terra: il primo e il secondo 
piano erano adibiti a magazzino ed erano pieni di macchinari 
della fabbrica che tenevano di scorta nel caso che qualcuno si 
fosse guastato. 
   Mi sentivo fortunato per il lavoro che svolgevo perchè mi 
venivano consegnati i pezzi da fare, li posizionavo sulla fresa e 
avviavo il macchinario, il quale faceva tutto automaticamente e 
io dovevo solo fermarlo quando il pezzo era completato. Dopo 
questo bombardamento lavorammo per altri dieci giorni, poi 
ci tennero cinque giorni nel blocco senza mandarci in fabbrica 
e diminuendoci ulteriormente le razioni di cibo. Dalla fame 
andavo a rovistare nella melma costituita dagli scarti di cucina 
che venivano buttati nei pressi dei gabinetti. Ogni due blocchi 
c’era una cucina: cercavo qualche buccia di patata che poi la- 
vavo, appallottolavo e mangiavo. Ricordo che queste bucce me 
le dovevo contendere con le numerose lumache che giravano lì 
attorno. 
   L’orario della sveglia era sempre lo stesso, come anche l’ap- 
pello e tutto il resto. 
   Il quinto giorno che io e i miei compagni eravamo nel blocco, 
ci fu un nuovo bombardamento lontano dal nostro campo. I te- 
deschi a questo punto ci fecero mettere in fila a quattro a quattro 
e ci fecero camminare per una quarantina di chilometri. Arrivati 
ad un incrocio svoltammo lungo una strada che si sviluppava 
sulla sinistra, verso il paese vicino, sulle cui case vedevamo già 
sventolare le bandiere bianche in segno di resa. Era per noi un 
buon segno, una speranza. La marcia continuò sempre sotto la 
scorta delle SS armate e giunti ad una curva, i russi assalirono i 
tedeschi e li uccisero tutti con la forza delle loro mani. Eravamo 
finalmente liberi. (…)
Dopo qualche giorno di sbandamento, ci imbattemmo negli 
americani, i quali ci presero in consegna e ci portarono in un 
nuovo campo. Il campo aveva tre portoni e ad ogni portone 
c’erano due soldati di guardia. Le guardie che montavano per la 
notte venivano, tutte regolarmente uccise dai cecchini tedeschi, 
i quali si erano dati alla macchia diventando partigiani e con- 
tinuando la guerra contro gli americani e contro noi deportati. 
Queste uccisioni proseguirono per cinque giorni. 
   Io, per non essere un bersaglio dei tedeschi, mi ero tolto la 
divisa a righe da internato, l’avevo sotterrata e mi ero indossato 
un paio di pantaloni che avevo trovato nel campo. Da lì poteva- 
mo uscire per andare a cercare da mangiare perchè gli americani 
(per la precisione erano australiani), avevano appena i viveri per 
loro stessi. In questa zona, dovevamo prestare molta attenzione 
ai cecchini che erano sparsi su tutto il territorio. 
   Circa una ventina di giorni dopo, arrivarono gli inglesi, i quali 
presero in consegna il campo impedendoci di uscire. Questi 
erano ben organizzati e ci fornivano regolarmente i pasti. Il cibo 
era ugualmente molto scarso e allora ci facevamo fare, di tanto 
in tanto, dei permessi per uscire dal campo in cerca di viveri. Ci 
accodavamo sempre ai russi i quali trattavano gli italiani come 
fratelli, mentre erano molto violenti nei confronti del popolo 
tedesco, probabilmente a causa delle grandi sofferenze subite. 
   Con gli inglesi restammo dal mese di aprile al 28 agosto, 
giorno in cui cominciò il rientro a casa. A Bordano arrivai il 10 
settembre del ’45.


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