Scrive Anna di Alesso su facebook: " Alcuni anni fa ho fatto una promessa a mia nonna. Quella di non dimenticare. 21/22 gennaio 1943 è la presunta data di morte del suo giovane fratello diciannovenne disperso in Russia. Mi raccontava spesso di quando finita la guerra, con suo padre, si recava alla stazione di Gemona e lo aspettava...come tante madri, sorelle hanno aspettato quei figli e fratelli che non sono mai tornati. . Permettetemi solo di ricordarli come penso sia doveroso. ".
Settant'anni fa si chiudeva infatti, con la battaglia di Nikolajewka, la tragica esperienza del corpo di spedizione italiano in Russia. Numerosi anche i soldati che, partiti dalla Valle del Lago, non fecero ritorno ai propri paesi: 27 dal Comune di Trasaghis, 9 da Bordano, 14 da Cavazzo.
Riproponiamo una poesia scritta da Zuan Cucchiaro e dedicata proprio a quella località russa, dove viene sottolineato soprattutto l'insensatezza di quella spedizione.
Nicolajewka
Vincj agns j vevis
e forsit nancja,
ma tanta voja di vivi.
E sui mûrs dal paîs
"Anin varìn fotuna",
j vevis scrit.
Se chê a è stada furtuna …
E la supierbia, messadada
cu la ignoranza e la presunzion
dai caporions fin lassù a us an mandâts.
A f a ce, po'?
E cuant che lôr a vegnivin indevant,
di bessoi a us an lassâts,
a tegnî dûr
cui scarpons di carton
e la mantelina ch'a parava
si e no l'aria dal Palâr.
Joi mâri, ce tant frêt!
E cajù chê mâri
a gemi e a spietâ
e spietâ
e spietâ….
(Zuan Cucchiaro)
Alcuni elementi per ricostruire il contesto di quelle giornate:
Fu, quella di Nikolajewka, una vittoria tragica, per l’altissimo tributo di vite («un offertorio», la definì Bepi De Marzi, direttore de I Crodaioli e autore de Le voci di Nikolejewka), e una vittoria atipica. Armamenti e strategie contarono poco: di fatto fu la vita a prevalere sulla morte. Vinsero la voglia di tornare a casa, e la rabbia, che già non era più contro il nemico, che aveva difeso i campi e le isbe della Santa Madre Russia invasa. L’ostilità cominciò di lì a orientarsi contro i comandi fascisti e contro l’alleato nazista. «Che Iddio maledica chi ci ha tradito, lasciandoci sul Don e poi è fuggito», recita il testo di Pietà l’è morta, di Nuto Revelli, ufficiale della Tridentina e poi partigiano. Ma l’elaborazione umana e politica, la lezione antifascista, se vogliamo, seguirono; a Nikolajewka scattò l’istinto di conservazione. I fatti sono noti: un contingente dell’Armata Rossa, dotato di armi pesanti e affiancato da truppe partigiane, attese la colonna italiana in ritirata in un trincerone formato dal terrapieno della ferrovia. L’apertura di un varco attraverso il quale far defluire i superstiti riuscì alla brigata alpina Tridentina, guidata dal generale Luigi Reverberi. «Alla testa di un manipolo di animosi, balza su un carro armato e si lancia leoninamente, nella furia della rabbiosa reazione nemica, sull'ostacolo, incitando con la voce e il gesto la colonna che, elettrizzata dall’esempio eroico, lo segue entusiasticamente a valanga coronando con una fulgida vittoria il successo della giornata ed il felice compimento del movimento», dice la motivazione della medaglia d’oro che gli verrà conferita. «Esempio luminoso di generosa offerta, eletta coscienza di capo, eroico valore di soldato». Al netto della retorica patriottica rimangono i numeri: il 16 gennaio 1943, inizio della ritirata, il Corpo d’Armata Alpino contava 61 mila uomini. Dopo Nikolajewka si contarono 13.420 uomini usciti dalla sacca, più 7.500 feriti o congelati. Circa 40.000 rimasero indietro, morti, dispersi o catturati. Migliaia furono presi prigionieri e radunati dai sovietici in vari campi, dai quali pochi torneranno. Si coprì l’orrore del macello con il sudario del valore.
(estratto da : Luciano Santin, Inferno di neve, Tridentina all’assalto di Nikolajewka, "Messaggero Veneto", 16 gennaio 2013)
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