Dal prato allo
stemma: la pecora in quel di Bordano
“Lo stemma del Comune di Bordano, in vigore dal 1983. Semplice ma
evocativo, con un riferimento, quello alla pecora, tanto interessante quanto
non banale. (foto da “comuni-italiani.it”)
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“Di rosso alla pecora
d’argento, tenente in bocca un grappolo d’uva d’oro, ferma su campagna di
verde; il tutto abbassato ad un capo troncato d’azzurro e d’argento. Ornamenti
esteriori da comune”; questa la descrizione dello stemma del Comune di
Bordano che si ritrova nello statuto comunale, con due elementi che spiccano
maggiormente in questo insieme, in vero, piuttosto semplice: la pecora e il
grappolo d’uva. Entrambi meriterebbero una trattazione a parte e questa volta
intendo proprio partire con una di esse; rimango nel regno animale e quindi
scelgo la pecora. Quando finalmente il 25 febbraio 1983 questo stemma, con
decreto presidenziale e dopo richiesta dello stesso nostro Comune, fu
ufficialmente ottenuto a rappresentanza del Comune e quindi dei due abitati di
Bordano e Interneppo, fu compiuto un passo importante, anche se tardivo, oltre
che sul piano istituzionale anche su quello simbolico. Quale altra simbologia
ufficiale potrebbe infatti sintetizzare i caratteri più significativi di un
territorio se non uno stemma? La combinazione tra allevamento con pascolo da
una parte e agricoltura in senso stretto dall'altra è palesata dalla stessa
rappresentazione, ed è anche ovvio che il rimando è stato inteso nei confronti
di un passato contadino ed essenziale. Ma se di animali dobbiamo parlare,
spontanea potrebbe sorgere la seguente domanda: come mai proprio una pecora è
stata scelta a rappresentare la più evidente peculiarità presente nello stemma,
ossia quella dell’allevamento, e non per esempio una vacca, una capra o un
maiale? Per quale motivo insomma la figura della pecora è stata valorizzata al
punto da comparire nello stemma al posto dell’animale da pascolo per eccellenza
e che più poteva garantire sostentamento e guadagno, ossia la vacca?
In effetti si tratta di una questione non scontata se
pensiamo che la pecora abbondava soprattutto nell’alta pianura, mentre nelle
aree montuose era in genere subordinata ai bovini. Va dunque affrontata tenendo
conto in buona parte, ma non completamente, della dimensione prettamente
economica. Ricordiamo infatti come nel censimento del 1868, su 64803 capi ovini
in Friuli, circa il 68% fosse in pianura (si erano esclusi i territori ancora
asburgici). Per trovare una risposta al quesito, bisogna infatti considerare in
primis che la zootecnia bordanese non prevedeva l’impiego di animali per un uso
da lavoro, in quanto essi tutti, non solo le pecore, contribuivano a sostenere
un’economia famigliare incentrata sullo sfruttamento di appezzamenti assai
ridotti o comunque di non vaste proporzioni. In una ipotetica passeggiata per
la campagna bordanese non avremmo insomma incrociato greggi e nemmeno buoi
intenti a trainare aratri, anche tra l’altro per la morfologia stessa del
territorio, spesso in pendenza e irregolare. Precise e accurate informazioni ci
arrivano per esempio dagli atti preparatori del catasto austriaco, risalenti al
1826. Nelle note riguardo gli animali d’allevamento si legge che “La specie di questi bestiami consistono in
Vacche, Manzette, Peccore (14) e Capre. Questi bestiami si considerano
tutti da frutto”. Quest’ultima locuzione, “da frutto”, completa la prima
osservazione: le bestie servivano soltanto a produrre materiale, sia esso
alimento, lana ecc., non a produrre lavoro; questo “frutto” poi poteva essere
consumato in famiglia, il più delle volte, oppure venduto per ricavarne quel
poco denaro di cui si poteva disporre. Anche se pure in questo contesto la
vacca rimaneva l’animale più prezioso, l’approccio riservato alla pecora
rispecchiava un rapporto particolare, più intimo oserei dire. Innanzitutto,
sempre dalle note del 1826, la pecora risultava essere in tutta la Val del Lago
l’animale meno diffuso tra quelli menzionati, e nel 1858 vi erano 167 esemplari
nell’intero Comune. Facendo un balzo in avanti fino alla prima metà del ‘900,
scopriremo come la presenza continuasse ad essere esigua, in quanto le famiglie
in genere ne possedevano una, massimo due esemplari ciascuna; questo almeno tra
fine anni ’30 e fine anni ’40, secondo le testimonianze di una persona che fu
tra le ultime a Bordano ad allevare animali da stalla, la signora Aurora Picco.
Per cogliere il significato che aveva il rapporto bordanese – pecora, ci
affidiamo dunque anche ai ricordi della signora Aurora, raccolti da Linda
Picco. Il divario tra le condizioni tutt’altro che floride di Bordano e quelle di
altre aree del Friuli, come la Bassa, ove la famiglia di Aurora sfollò dopo
l’incendio tedesco del ’44 ai danni di Bordano, si palesò subito alla famiglia
bordanese, non potendo quasi credere ai propri occhi nel vedere un pastorello
intento a portare al pascolo un intero gregge. Su un centinaio e passa di pioris in paese, circa una su dieci era
un maschio, roc in friulano, che
naturalmente serviva per dare continuità alle generazioni di pecore, la cui fecondazione
avveniva solitamente in autunno, per poi veder nascere l’agnello attorno a
Pasqua. In pianura in realtà il maschio intero (cioè non castrato) era il monton, ma pare che sia un termine
importato dal veneto e che “roc”
fosse diffuso anche in pianura prima di rimanere confinato alle zone montane.
Interessante notare come quest’ultimo sia entrato a far parte del vocabolario
popolare anche con l’accezione di “testardo”, oltre a “rochèl”, cioè “sciocco”. Ah quante volte mio nonno mi diceva “puar roc”!
I “frutti” che garantivano gli ovini erano naturalmente la
lana e il latte, mentre solo in occasioni di un certo tipo potevano fornire
carne, e comunque solo gli agnelli o le pecore ormai a fine carriera. In
quest’ultimo caso la pecora poteva anche essere venduta a qualche macello,
mentre l’agnello era consumato tradizionalmente in famiglia come spezzatino
insaporito con aglio, cipolla e altri condimenti. Per tutto il resto della vita
di una pecora essa era una presenza fissa per le povere famiglie locali, un
animale che non forniva molto, ma allo stesso tempo senza il quale l’economia
già magra della famiglia sarebbe stata affossata. Gli animali in genere quindi
non si vendevano ma al contrario potevano essere acquistati o presso altre
famiglie del posto o nei mercati del bestiame, come quello che mensilmente
animava la Piazza del Ferro a Gemona. Come abbiamo detto, poi, in mancanza di
greggi e di vaste superfici per il pascolo, le pecore di ciascuna famiglia
avevano a disposizione giusto un fazzoletto di prato privato in cui venivano
lasciate brucare l’erba, soprattutto in primavera e autunno, mentre quando non
si riusciva a ritagliarsi il tempo necessario per portarle al pascolo si
lasciavano tranquillamente nella stalla, ove potevano cibarsi del fieno assieme
alle vacche. Non si trattava di animali schizzinosi ma che anzi si adattavano a
mangiare un po’ di tutto, come foglie e ortaggi, oltre naturalmente all’erba e
al fieno. A vegliare su di loro al pascolo non c’erano dunque piorârs professionisti ma i membri delle
rispettive famiglie, in particolare i ragazzini, che se le portavano dietro ben
volentieri, quasi come animali da compagnia infondo. Era comunque necessario
non perderle di vista, per evitare che sconfinassero in altri possedimenti
creando magari dei danni. Sembra una cosa da poco ma era una delle varie
questioni che venivano prese a pretesto dalle comunità locali per un continuo
botta e risposta fatto di lagnanze e insofferenze. Ne è una prova la lettera
del 24 marzo 1749, in cui si legge: “…la
verità fu ed è che si sono ritrovati molti Animali minuti – ovini e caprini
si intende – di ragione di quelli
d’Interneppo e Bordan a pascolare né siti detti Seletto e Castellato compresi
nel Privilegio donato a quelli di Trasaghis Braulins, ecc…”. Non consumavano
neppure tanto, anzi decisamente poco, circa tre chili al giorno, e producevano
mezzo litro a ogni mungitura (una alla mattina e una alla sera come per le
vacche), alla fine quindi circa un litro al dì. Il latte non andava poi a
costituire formaggi, in quanto era bevuto così, o forse non proprio così; dato
il suo gusto forte era infatti preferibile diluirlo con l’acqua. Altrove invece
il latte di pecora era la base per vari latticini, come il ricercatissimo
pecorino di Villaorba, in un periodo in cui, fine ‘800, il formaggio vaccino
era ancora agli inizi della sua storia, visto che era allora appena stata
introdotta la vacca da latte per antonomasia, la Pezzata Rossa. Tali formaggi
di pianura erano poi valorizzati grazie all’avvio, negli stessi anni, della
coltivazione dell’erba medica. Infine la lana: con la tosatura di marzo e poi
quella di settembre ogni pecora forniva all’incirca due chili di lana all’anno,
coi quali naturalmente si ottenevano comodi e caldi indumenti per l’intera
famiglia. La pecora era insomma compagna di vita e bene prezioso quanto bastava
per tirare avanti tra emigrazione, povertà e guerre.
Ma quali erano nello specifico le caratteristiche anche
fisiche degli ovini in Comune di Bordano? Si trattava della razza detta “nostrana”
(o “Bergamasca”), dotata di lana bianca di buona qualità e che non subiva
incroci. Il roc poteva aggirarsi sino
al quintale di peso, mentre le femmina la metà o anche meno. Il confronto tra
le pecore di Bordano e quelle di altre località friulane non stride più di
tanto, anzi in confronto a quelle carniche dovevano essere decisamente
superiori. Ecco infatti la tutt’altro che rosea descrizione che nel 1858 il
Lupieri fa della pecora della Carnia: “…di
razza piccola, brutta e di vilissima lana (...) sì povere di latte che slattato l’agnello, nemmeno si cura di mungerle”.
La presenza in regione di esemplari non locali, registrata nel 1868, riguardava
però solo territori di pianura.
All’alba della seconda metà del secolo scorso il vortice
della modernità cominciò a coinvolgere gradualmente anche i paesi dalle forti e
radicate tradizioni rurali come il nostro, e ormai l’allevamento, compreso
quello delle pecore, perse d’importanza, o meglio, non conveniva più
mantenerlo. Così, 4 anni dopo che la figura della pecora finì in bella mostra
al centro dello stemma comunale, si “estinsero” gli ovini a Bordano, con
l’ultima appartenente alla signora Aurora Picco. Ma non solo a Bordano il
tracollo dell’allevamento ovino arrivò nello scorso secolo; in tutta la regione
subì un costante regresso fino appunto a scomparire in diverse zone.
Oscar Rossi ed Ermanno Rossi si avventurano attraverso il prato
pendente una volta noto come Prât dal Agnel, oggi ancora tale in
quanto punto strategico per i cacciatori. (foto di Enrico Rossi)
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Questo insomma il quadro generale che perdurava nella nostra
comunità, ma, qualcuno domanderà, con un corredo di toponimi così ricco e
variegato come il nostro, da qualche parte, magari su qualche versante
imboschito, esiste una località che storicamente è dotata di un nome che
rimandi all’allevamento delle pecore? L’interrogativo, come ben capirete, è più
retorico che altro, altrimenti non l’avrei nemmeno posto; la risposta quindi è sì.
La località in questione è singolare prima di tutto per un motivo di copertura
vegetale: è una delle pochissime macchie di radura rimaste in tutto il versante
sud del San Simeone tra Bordano e Interneppo. Altitudinalmente siamo
esattamente a 400 m slm, quindi comunque a quote basse, e in linea d’aria ci
collochiamo praticamente a metà strada tra i due paesi. Raggiungerla non è
assolutamente difficile: basta seguire la ex Strada Militare del San Simeone e
fermarsi poche centinaia di metri dopo aver passato il bivio con l’altra strada
ex militare, quella del Festa. Dalla strada parte sulla sinistra un sentiero
che si inoltra per un tratto nei giovani e irregolari boschi della zona per poi
sboccare in un prato pendente. Anche se la densità degli alberi già cresce
spostandosi verso i bordi, rimane comunque al centro un’area completamente
spoglia, tanto che non si fa fatica a vederla su Google Maps. Per dare un’idea
più precisa del posto, se si proseguisse nel bosco verso nord-ovest, si
arriverebbe in brevissimo tempo in località Fran
di Cjavaç, sopra il sottostante Rio Costa, che proprio lì appresso incrocia
la Strada del Festa sotto il Puint di
Bree; è la zona del bivio già citato. Il nome della nostra località è Prât dal Agnel, e, oltre ad essere
perfettamente riconoscibile dal bosco che la circonda, è anche contornata da
roste molto lunghe, anche queste ben intuibili dall’alto. Ovviamente il sito
non è visitato da pecore da moltissimi anni ormai, dunque perché è ancora
mantenuto a prato? È un ottimo punto d’osservazione per i cacciatori della
riserva di caccia comunale, i quali hanno installato alcune attrezzature
tipiche, come le classiche torrette in legno e i blocchi di sale sui tronchi
per attirare gli ungulati. Rimanendo nei dintorni, possiamo verificare come
altri siano i toponimi, precisamente agrotoponimi della categoria dei
zootoponimi, in cui è esplicitato il riferimento agli ovini: Clap dal Agnel e Cret dal Agnel a Gemona, Val
das Piôras e Cret das Piôras ad
Alesso. Persino a Udine v’era un Pra
dall’Agnèl, un “Pezzo di terra fuori
la porta di Pracchiuso…” (1787).
Questa cartina topografica dà un’indicazione precisa della collocazione del Prât
dal Agnel (numero 20) e dell’adiacente Fran di Cjavaç (numero
19). Quest’ultimo identifica l’area a est del bivio tra la Strada del Festa,
che punta verso nord-ovest, e quella del San Simeone. Quest’ultima invece si
dirama dalla Provinciale alla Sella di Interneppo (è il primo bivio). La linea
tratteggiata che contorna il numero 20 indica le roste che lì ancora si
sviluppano e che permettono di identificare inequivocabilmente la località.
(foto dal libro “Bordan e Tarnep: nons di lûc”)
La pecora a Bordano e Interneppo fu quindi un animale che
personificò il volto riservato e umile, ma allo stesso tempo adattabile e
tenace, di comunità che per secoli condussero un’esistenza ai margini delle
grandi innovazioni che si irradiavano dai grandi centri. All’ombra del Naruvint
e del San Simeone, placide e fedeli le pecore accompagnarono intere generazioni
di bordanesi e interneppani, fino a che scomparvero nel momento in cui
l’emancipazione novecentesca da arcaici sistemi e stili di vita non coinvolse
anche la nostra piccola terra tra il lago e il fiume. Si può dire che l’unica
pecora che da noi ancora sopravvive è proprio quella dello stemma. Chissà se le
nostre antiche famiglie avrebbero mai immaginato che il loro fido animale
sarebbe finito a rappresentare il Comune in un' epoca che ormai non avrebbe più
avuto bisogno di lui!
Enrico Rossi
Fonti:
Libro "Bordan e Tarnep: nons di lûc", Enos Costantini, 1987
Libro "Bordan e Tarnep: un modello di sviluppo autosostenibile",
Luigi Tomat, 2006
Libro "Val dal Lâc", a cura della Società Filologica Friulana,
1987
Libro "Bordan e Tarnep: storie e vite ator dal Lâc", a cura di
Enos Costantini, 1997
Libro "Toponomastica storica della Città e del Comune di Udine",
Giovanni Battista Della Porta, 1991 (riedizione)
Periodico "Monte San Simeone", marzo 1988
Periodico "Tiere
furlane", ottobre 2016
Bravissimo Enrico Rossi, credo che una ricerca così approfondita e ricca di elementi non sia mai stata fatta riguardo alle origini della simbologia adottata per rappresentare il comune sullo stemma ufficiale. Unica nota da fare è che la signora Aurora non era Picco bensì Colomba: Colomba Aurora (di Tilde)
RispondiEliminaLa ringrazio davvero molto per l’apprezzamento. Riguardo la signora Aurora, io in realtà ho ricevuto conferme sul cognome Picco; mio padre ha aggiunto che era la madre dell’ex sindaco di Bordano Olivo Picco, scomparso a fine 2016.
EliminaEnrico Rossi, Udine