All’appuntamento si ricorderà il 15 giugno del 1927, quando Bottecchia morì all’ospedale di Gemona, dove fu ricoverato a causa di una caduta dalla bicicletta capitatagli il 3 giugno precedente nella zona di Peonis, dove il campione era solito allenarsi.
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Sulla fine di Bottecchia, e sulle tante voci insorte ecco un articolo di Gianni Mura uscito sul "Venerdì di Repubblica" il 22 giugno 2017:
Botescià: morte misteriosa di un ciclista leggendario
Il 3 giugno 1927 Ottavio Bottecchia si svegliò alle 5 del mattino, non della sera, e andò incontro al suo destino come il torero di García Lorca. Era di cattivo umore, disse la nipote Elena, perché la sera prima il fedele gregario e amico Alfonso Piccin (cui aveva regalato una casa) gli aveva detto che non l’avrebbe accompagnato in allenamento il giorno dopo. Doveva andare a trovare la morosa. Quel 3 giugno Bottecchia, cercando compagnia, passò da Cordenons a casa di Riccardo Zille, che stava compilando le buste-paga dei suoi operai. Bottecchia lo allettò con l’idea di un pranzo offerto a Gemona: niente da fare. Ci riprovò ad Arzene con Luigi Maniago, che stava imbiancando la facciata di casa, nemmeno lui poteva salire in bici.
È solo, Bottecchia. Ed è sulla strada tra Cornino e Peonis che lo trovano due contadini. Pieno di sangue che esce da orecchie e naso, il grosso naso, ma respira, è ancora vivo. Lo depongono sul tavolone dell’osteria da Bepo, dove si lavora il maiale, chiamano il parroco per l’estrema unzione: e l’ostetrica-infermiera Minina. Su un carro lo portano all’ospedale di Gemona, 12 chilometri sotto il sole.
Un contadino l’ha visto cadere, rialzarsi e camminare barcollando, la bici per mano, e poi buttarsi a terra in un prato. Fratture craniche e della clavicola destra, dicono all’ospedale. Bottecchia è in coma, alla moglie ripete la stessa parola (malore) che aveva detto sul carro, all’ostetrica. Questo avvalora la tesi dell’incidente. Muore il 15 giugno. Suo fratello Giovanni era morto, investito da un’auto, il 22 maggio. L’auto, con autista, apparteneva a Franco Marinotti, pezzo grosso del Fascio, testimone di nozze di Mussolini, fondatore della Snia Viscosa. Ottavio era andato da lui a discutere sul risarcimento. Marinotti aveva offerto 100 mila lire, Bottecchia le aveva rifiutate, pare anche insultandolo. Cosa che un ex povero, anche se proprietario di una limousine che a Pordenone solo i conti Porcia potevano sfoggiare, non doveva permettersi. Di qui l’ipotesi, sostenuta in due libri da Enrico Spitaleri: pestaggio punitivo da parte di una squadra fascista, al crocicchio di Cornino, e il resto, la caduta a Peonis, dipende dalle bastonate prese. La frattura della clavicola ci sta, è un classico nelle cadute dei ciclisti, quella della base cranica insospettisce. Non c’era tanto caldo, prima delle 10, per giustificare un’insolazione, né la strada militare consentiva alte velocità. Quindi, caduta rovinosa ma bici senza un graffio.
Da allora, su questa morte, mille congetture. Ucciso da un contadino cui stava rubando l’uva (in giugno?). No, le ciliege. No, i fichi. Ucciso da un marito geloso. Ucciso da uno spasimante della moglie. Nessuna di queste sta in piedi. Aggiungiamo la confessione in articulo mortis a New York di un killer sardo della mafia e la vendetta del racket delle scommesse per uno sgarro fatto ad Anversa. Ma, se ci fu violenza, perché Bottecchia non ne parlò a nessuno? Per i soldi, gli schei, il vero motivo per cui correva e faticava. «Non corro per la patria, che ho servito sul Piave, né per gli applausi, ma per gli schei. Voglio che la mia famiglia esca dalla miseria». L’assicurazione sulla vita (500 mila lire dell’epoca, un tesoro) era valida per un incidente sul lavoro, non per una rissa. Bocca chiusa, quindi. Lui fino alla morte e Caterina, la moglie, negli anni a venire.
Ottavo di otto figli, padre ortolano e carrettiere, Bottecchia in guerra aveva respirato gas tossici e contratto la malaria. Fatto prigioniero tre volte dagli austriaci, tre volte era riuscito a scappare. Medaglia di bronzo al valore. Non c’erano gerarchi fascisti ai suoi funerali e, cosa molto strana, non c’erano Girardengo, Binda, Aimo, Belloni, i più forti ciclisti italiani, mentre da Parigi erano arrivati i fratelli Pélissier, altri dal Belgio a rendergli omaggio. Per i nostri, forse, era un morto scomodo.
Sono grato a Claudio Gregori perché Il corno di Orlando, che si legge come un romanzo, mi consente di ricordare una delle figure più controverse e misteriose del nostro ciclismo. Claudio, compagno di tante strade dietro alle bici, è un prodigioso incrocio tra un rabdomante e un topo d’archivio. Il topo, d’ispirata scrittura, fa rivivere i due Tour vinti da Bottecchia, primo italiano a indossare la maglia gialla. Che non esisteva nell’unico giorno in cui Borgarello e Micheletto si ritrovarono, prima di lui, in testa alla classifica. Li fa rivivere tappa per tappa, ordine d’arrivo per ordine d’arrivo. Il ciclofilo gode. E il rabdomante sa che ogni storia ne contiene altre, come una scatola cinese. I due Tour persi, Hemingway, Rommel, Vittorio Pozzo che va a tifare sulle salite, l’ingegner Gadda, Edoardo Agnelli, Italo Balbo, Ungaretti, Malaparte, Carnera, Giolitti, Meazza, Matteotti. Ma non voglio togliere al lettore il piacere di incontrarli lungo le 500 e più pagine di un libro che è il più affascinante e completo di tutti quelli scritti su Bottecchia. E giustifica totalmente il titolo, che rimanda alla chanson de geste. È sui Pirenei, come Orlando, che Bottecchia conquista la gloria e patisce il tradimento. Ma, soprattutto, è il ciclismo, “quel” ciclismo che evoca la chanson de geste. Nell’epica quotidiana e nel linguaggio dei giornali. Una chicca il titolo della Gazzetta: «Per la guerra hip hip hurrà!».
Henri Desgrange, corridore in gioventù con relativo record dell’ora, dirige il Tour come fosse un avamposto della Legione Straniera. I ciclisti lo chiamano “la Scimmia”. La fatica è disumana. Tappe di 480 chilometri, partenza alle 2 di notte. Vietato ricevere assistenza meccanica, vietato parlare con l’ammiraglia, chi ce l’ha, perché la maggioranza è composta dagli isolati, come il pavese Rossignoli, primo Tour nel 1904 e ultimo nel 1927 (a 45 anni). Vietato togliere o aggiungere indumenti rispetto a quando si è partiti: per un controllo della giuria, a questo proposito, a Coutances nel ‘24 si ritireranno i Pélissier. Se alle 2 di notte pioveva e faceva freddo, il maglione e l’incerata bisognava tenerli anche sotto il sole. Un corridore fu penalizzato perché, squarciata una gomma, aveva cercato di aggiustarla con ago e filo. Ma con le mani sporche e gelate non riusciva a infilare il filo nella cruna. Lo fece per lui la pietosa merciaia del paese. Guai. Un altro, Ruffoni, fu multato perché aveva accettato una pesca da un tifoso.
Si correva su mulattiere, ogni foratura richiedeva tre minuti, si forava 6/7 volte al giorno, ora per sassi aguzzi ora per chiodi e cocci di vetro seminati da tifosi avversari. Oggi viviamo il ciclismo giocato sui secondi di distacco, allora sui quarti d’ora come minimo. Si affrontavano montagne sconosciute, su bici pesanti che consentivano una media di 12/15 chilometri l’ora. Si ingoiava polvere, letteralmente. Si beveva nelle fontane, ma anche l’acqua sporca dei fossi e, nella traversata delle Lande, il latte di una mucca munta nel prato.
Il primo Tour “Botescià” lo iniziò in giallo, poi l’Automoto lo sacrificò alla necessità di far vincere un francese, Henri Pélissier. Bottecchia terminò secondo, primo italiano sul podio. Dominò nel ‘24, maglia gialla dal primo all’ultimo giorno, e vinse ancora nel ‘25. Nel ‘26 era meno forte, colpito dalla sfortuna e pugnalato dai suoi stessi compagni di squadra, che attaccavano non appena lo vedevano in difficoltà. Vinse Lucien Buysse, Bottecchia si ritirò sui Pirenei sotto un diluvio, senza udire il corno di Orlando ma solo lo strazio del suo corpo cui troppo aveva chiesto. Da perfetto sconosciuto a campione pieno di schei in pochi anni, ma senza il tempo di goderseli. Un mistero da vivo e da morto.
(Il Venerdì Repubblica, 23 giugno 2017)
È solo, Bottecchia. Ed è sulla strada tra Cornino e Peonis che lo trovano due contadini. Pieno di sangue che esce da orecchie e naso, il grosso naso, ma respira, è ancora vivo. Lo depongono sul tavolone dell’osteria da Bepo, dove si lavora il maiale, chiamano il parroco per l’estrema unzione: e l’ostetrica-infermiera Minina. Su un carro lo portano all’ospedale di Gemona, 12 chilometri sotto il sole.
Un contadino l’ha visto cadere, rialzarsi e camminare barcollando, la bici per mano, e poi buttarsi a terra in un prato. Fratture craniche e della clavicola destra, dicono all’ospedale. Bottecchia è in coma, alla moglie ripete la stessa parola (malore) che aveva detto sul carro, all’ostetrica. Questo avvalora la tesi dell’incidente. Muore il 15 giugno. Suo fratello Giovanni era morto, investito da un’auto, il 22 maggio. L’auto, con autista, apparteneva a Franco Marinotti, pezzo grosso del Fascio, testimone di nozze di Mussolini, fondatore della Snia Viscosa. Ottavio era andato da lui a discutere sul risarcimento. Marinotti aveva offerto 100 mila lire, Bottecchia le aveva rifiutate, pare anche insultandolo. Cosa che un ex povero, anche se proprietario di una limousine che a Pordenone solo i conti Porcia potevano sfoggiare, non doveva permettersi. Di qui l’ipotesi, sostenuta in due libri da Enrico Spitaleri: pestaggio punitivo da parte di una squadra fascista, al crocicchio di Cornino, e il resto, la caduta a Peonis, dipende dalle bastonate prese. La frattura della clavicola ci sta, è un classico nelle cadute dei ciclisti, quella della base cranica insospettisce. Non c’era tanto caldo, prima delle 10, per giustificare un’insolazione, né la strada militare consentiva alte velocità. Quindi, caduta rovinosa ma bici senza un graffio.
Da allora, su questa morte, mille congetture. Ucciso da un contadino cui stava rubando l’uva (in giugno?). No, le ciliege. No, i fichi. Ucciso da un marito geloso. Ucciso da uno spasimante della moglie. Nessuna di queste sta in piedi. Aggiungiamo la confessione in articulo mortis a New York di un killer sardo della mafia e la vendetta del racket delle scommesse per uno sgarro fatto ad Anversa. Ma, se ci fu violenza, perché Bottecchia non ne parlò a nessuno? Per i soldi, gli schei, il vero motivo per cui correva e faticava. «Non corro per la patria, che ho servito sul Piave, né per gli applausi, ma per gli schei. Voglio che la mia famiglia esca dalla miseria». L’assicurazione sulla vita (500 mila lire dell’epoca, un tesoro) era valida per un incidente sul lavoro, non per una rissa. Bocca chiusa, quindi. Lui fino alla morte e Caterina, la moglie, negli anni a venire.
Ottavo di otto figli, padre ortolano e carrettiere, Bottecchia in guerra aveva respirato gas tossici e contratto la malaria. Fatto prigioniero tre volte dagli austriaci, tre volte era riuscito a scappare. Medaglia di bronzo al valore. Non c’erano gerarchi fascisti ai suoi funerali e, cosa molto strana, non c’erano Girardengo, Binda, Aimo, Belloni, i più forti ciclisti italiani, mentre da Parigi erano arrivati i fratelli Pélissier, altri dal Belgio a rendergli omaggio. Per i nostri, forse, era un morto scomodo.
Sono grato a Claudio Gregori perché Il corno di Orlando, che si legge come un romanzo, mi consente di ricordare una delle figure più controverse e misteriose del nostro ciclismo. Claudio, compagno di tante strade dietro alle bici, è un prodigioso incrocio tra un rabdomante e un topo d’archivio. Il topo, d’ispirata scrittura, fa rivivere i due Tour vinti da Bottecchia, primo italiano a indossare la maglia gialla. Che non esisteva nell’unico giorno in cui Borgarello e Micheletto si ritrovarono, prima di lui, in testa alla classifica. Li fa rivivere tappa per tappa, ordine d’arrivo per ordine d’arrivo. Il ciclofilo gode. E il rabdomante sa che ogni storia ne contiene altre, come una scatola cinese. I due Tour persi, Hemingway, Rommel, Vittorio Pozzo che va a tifare sulle salite, l’ingegner Gadda, Edoardo Agnelli, Italo Balbo, Ungaretti, Malaparte, Carnera, Giolitti, Meazza, Matteotti. Ma non voglio togliere al lettore il piacere di incontrarli lungo le 500 e più pagine di un libro che è il più affascinante e completo di tutti quelli scritti su Bottecchia. E giustifica totalmente il titolo, che rimanda alla chanson de geste. È sui Pirenei, come Orlando, che Bottecchia conquista la gloria e patisce il tradimento. Ma, soprattutto, è il ciclismo, “quel” ciclismo che evoca la chanson de geste. Nell’epica quotidiana e nel linguaggio dei giornali. Una chicca il titolo della Gazzetta: «Per la guerra hip hip hurrà!».
Henri Desgrange, corridore in gioventù con relativo record dell’ora, dirige il Tour come fosse un avamposto della Legione Straniera. I ciclisti lo chiamano “la Scimmia”. La fatica è disumana. Tappe di 480 chilometri, partenza alle 2 di notte. Vietato ricevere assistenza meccanica, vietato parlare con l’ammiraglia, chi ce l’ha, perché la maggioranza è composta dagli isolati, come il pavese Rossignoli, primo Tour nel 1904 e ultimo nel 1927 (a 45 anni). Vietato togliere o aggiungere indumenti rispetto a quando si è partiti: per un controllo della giuria, a questo proposito, a Coutances nel ‘24 si ritireranno i Pélissier. Se alle 2 di notte pioveva e faceva freddo, il maglione e l’incerata bisognava tenerli anche sotto il sole. Un corridore fu penalizzato perché, squarciata una gomma, aveva cercato di aggiustarla con ago e filo. Ma con le mani sporche e gelate non riusciva a infilare il filo nella cruna. Lo fece per lui la pietosa merciaia del paese. Guai. Un altro, Ruffoni, fu multato perché aveva accettato una pesca da un tifoso.
Si correva su mulattiere, ogni foratura richiedeva tre minuti, si forava 6/7 volte al giorno, ora per sassi aguzzi ora per chiodi e cocci di vetro seminati da tifosi avversari. Oggi viviamo il ciclismo giocato sui secondi di distacco, allora sui quarti d’ora come minimo. Si affrontavano montagne sconosciute, su bici pesanti che consentivano una media di 12/15 chilometri l’ora. Si ingoiava polvere, letteralmente. Si beveva nelle fontane, ma anche l’acqua sporca dei fossi e, nella traversata delle Lande, il latte di una mucca munta nel prato.
Il primo Tour “Botescià” lo iniziò in giallo, poi l’Automoto lo sacrificò alla necessità di far vincere un francese, Henri Pélissier. Bottecchia terminò secondo, primo italiano sul podio. Dominò nel ‘24, maglia gialla dal primo all’ultimo giorno, e vinse ancora nel ‘25. Nel ‘26 era meno forte, colpito dalla sfortuna e pugnalato dai suoi stessi compagni di squadra, che attaccavano non appena lo vedevano in difficoltà. Vinse Lucien Buysse, Bottecchia si ritirò sui Pirenei sotto un diluvio, senza udire il corno di Orlando ma solo lo strazio del suo corpo cui troppo aveva chiesto. Da perfetto sconosciuto a campione pieno di schei in pochi anni, ma senza il tempo di goderseli. Un mistero da vivo e da morto.
(Il Venerdì Repubblica, 23 giugno 2017)
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