"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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lunedì 13 novembre 2017

A Cavazzo, tra rabarbaro e sclopìt

Il "Messaggero Veneto" ha dedicato una pagina intera alla esperienza di Caterina Pillinini che a Cavazzo ha dato avvio ad attività agricole e di pet-therapy


La storia di Caterina, la psicologa che coltiva il rabarbaro

Ha avviato a Cavazzo Carnico l’azienda agricola e un’attività di pet therapy

CAVAZZO CARNICO. Le vacanze estive trascorse dai nonni le hanno fatto balenare idee di cambiamento sempre più profonde. È maturata a Cavazzo Carnico la decisione di dare una svolta alla sua vita.
Lassù tra i monti, toglieva le scarpe adatte agli usi cittadini per calzare gli scarponi necessari al lavoro nei campi. Soltanto a settembre rientrava a Trieste per gli studi universitari. Le origini non si scordano mai, soprattutto se hanno radici robuste.
Caterina Pilinini, trentatreenne, dopo aver ottenuto la laurea in Psicologia ha accettato un posto fisso nel settore assicurativo. Ma dentro di lei si stava sviluppando il pensiero di vivere sino in fondo la libertà della montagna.
Era troppo forte il richiamo di Cavazzo Carnico, tranquillo paese di un migliaio di anime, sulla conca protetta da vette che danno l’impronta al paesaggio: l’Amariana, familiarmente chiamato “la Mariane”; i monti Festa e Faeit, che legano la loro popolarità alle opere militari della Grande Guerra. Tutt’attorno c’è il placido lago dei Tre Comuni, fonte di serenità e di fascino.
Caterina non ha resistito: «A Trieste stavo bene, ma non sopportavo il lavoro nel chiuso di un ufficio. Volevo riscattare la mia libertà, che non ha prezzo. Non ho mai concepito un’attività professionale come mezzo per guadagnare lo stipendio. Mi portavo a casa frustrazioni e ansie.
Finché si è giovani non si può soccombere sotto il peso di logiche insopportabili. Allora, meglio darci un taglio per non vivere di rimpianti, così ho scelto di gustarmi il ritmo delle stagioni». Caterina ha deciso di riallacciarsi gli scarponi, di mettersi lo zaino e di riprendere il cammino della vita.
La volontà di non adagiarsi. La sua indole emerge nitida da un dibattito che si è sviluppato nel suo profilo Facebook. Ha condiviso una delle tante frasi che circolano nel mondo dei social, perché la sentiva “sua”.
L’ha impressa per costruirci un ragionamento: «Chi si accontenta gode è la filosofia dei finti soddisfatti e dei depressi sorridenti». Ha duettato con alcuni amici per ribaltare la prospettiva della rinuncia a osare: «Chi si accontenta muore, un giovane deve rischiare per dire che almeno ha provato a inseguire un sogno».
Caterina non si è però buttata a vanvera. Ha costruito le basi. Oggi ammette che il “paracadute” dei genitori è stato un elemento importante per la svolta, comunque non facile. Mamma Rita e papà Lucio hanno anticipato di una decina di anni il cammino della figlia.
Entrambi insegnanti a Trieste, hanno mollato tutto per avviare nell’oasi di pace di Cavazzo Carnico, tra prati e orti di famiglia, il ristorante Borgo Poscolle, pluripremiato dallo Slow Food con la famosa “chiocciola”, simbolo di qualità e di rispetto delle tradizioni locali.
C’è la Carnia nei piatti. Caterina si è aggrappata al coraggio dei familiari. Ha scelto la bellezza della Natura per vivere in una casetta di legno, dove l’essenziale è a portata di mano o, meglio, di connessione con il mondo: «Non mi serve niente di più. Sarebbe folle pensare di fare i soldi con l’agricoltura di montagna. Voglio semplicemente imprimere nelle relazioni il sorriso, non il musone».
A Trieste, è rimasto soltanto il fratello Antonio a occuparsi di insegnamento, mantenendo vivo un pezzo di tradizioni familiari. Nel gennaio 2015 è nata così l’azienda agricola guidata dalla giovane psicologa – coltivatrice. C’è tanta passione in quello che esprime.
Caterina si ferma, per poi riprende il discorso cambiando il tono di voce, in modo da far capire che la terra impone sacrifici. È bene averne coscienza, perché la semplice atmosfera bucolica evapora di fronte agli ostacoli.

Più cervello e meno pancia. C’è il rischio di restare con il cerino in mano, perché il lavoro in campagna ha ben poco da condividere con le scene da Mulino bianco, che servono soltanto per gli spot pubblicitari. Il suo è un ragionamento concreto: «L’entusiasmo va bene, anzi ci vuole soprattutto all’inizio.
E dopo? Cosa accade quando arriva la gelata improvvisa, o la tempesta, che distrugge il raccolto di un anno? Non si tratta di piantare qualche bel fiorellino, ma di individuare delle precise strategie. Le scelte devono poggiare su radici solide».
Caterina ha puntato sull’autosostenibilità: è dura vivere con le coltivazioni di nicchia. Il suo è un modello multitasking, che si sta diffondendo un po’ in tutt’Italia. È caratterizzato da varie funzioni: non solo agricoltura fine a se stessa, ma che si allarga alla trasformazione dei prodotti e alla vendita, in modo da concentrare tutta la filiera nelle stesse mani.
La vita nei campi non è più un semplice ritorno al passato, ma l’individuazione di una traiettoria di futuro che porta a forme integrate di funzioni a sostegno della redditività.
Nel caso di Caterina, alla coltivazione si sono aggiunte le pratiche professionali di pet therapy, in modo da valorizzare la sua passione per gli animali nelle relazioni con bambini, anziani e nei trattamenti di casi di disagio psico-sociale.
Caterina si muove su più fronti: un po’ coltivatrice, un po’ psicologa. Le attività agricole sono raggruppate sotto il logo aziendale de “La gallinella saggia”, il cui nome rievoca particolari sentimenti legati all’adolescenza. Capitava spesso che la mamma narrasse ai figli qualche favola della “buonanotte”.
Sceglieva qualcosa che lasciasse traccia di un’educazione ai valori della vita. Parte dei racconti erano tratti dalle fiabe della Disney, magari arricchite con qualche riferimento a tradizioni del luogo. Nel caso della “gallinella saggia”, il messaggio favorisce una visione di futuro contro la tendenza al “tutto e subito”.
Perciò, la parte più consistente dei chicchi di grano deve servire per la semina (non per il consumo immediato), in modo da garantire proficui raccolti. L’egoismo dell’oggi non può compromettere la prospettiva del domani. Si tratta di una filosofia impostata sull’essenzialità di valori irrinunciabili: rispetto della terra, utilizzo di metodi naturali e biodinamici, recupero delle tradizioni senza cadere in visioni mitologiche, valorizzazione della Carnia come area di forte identità.
Queste sono le pratiche adottate da molti giovani coltivatori delle vallate che spesso si incontrano nei vari mercatini locali e si aiutano l’un con l’altro. Gettano le basi per reti d’impresa. C’è tanto futuro.
«Ecco le prove che la mia gallinella – spiega Caterina con lo sguardo intenso che si apre a un sorriso solare – non ha mangiato con ingordigia più chicchi del dovuto, ma quelli sufficienti per vivere e gli altri li ha investiti, perché all’orizzonte ci sono altri giorni».

Tra piante e animali. La coltivazione degli ortaggi è la mission aziendale. In poco più di un ettaro di terreno, sparpagliato un po’ di qua e un po’ di là a causa dell’ossessione atavica dei confini rigidi, particolarmente diffusa in montagna, Caterina ha ripristinato alcune colture dimenticate, a partire dal rabarbaro, una pianta perenne, già presente in Carnia, come confermano le memorie degli anziani.
Le striature rosso vivo del gambo risaltano tra il verde delle foglie. A maggio (fino a settembre inoltrato) si cominciano a raccogliere le coste, la cui lavorazione permette la produzione di confetture apprezzate per lo spiccato sapore dolce acidulo.
Dalla fruttificazione delle 120 piante l’azienda ricava 200 chili di marmellata. L’idea è di dare un’identità precisa all’impresa. Così, lungo le file ordinate dei campi viene coltivato anche il ribes nero, una varietà più pregiata di quella rossa.
Le 200 piante assicurano un centinaio di chili di confettura. Poi c’è il topinamburg (rapa tedesca), una pianta contraddistinta dai bei fiori gialli che sembrano margherite: i tuberi bitorzoluti richiamano agli stessi usi delle patate.
L’innovazione aziendale interessa particolarmente la trasformazione della “materia prima”, che non riguarda solo gli ortaggi ma anche le erbe spontanee, per esempio lo sclopit, il tarassaco, l’aglio orsino e, in via sperimentale, le bacche di rosa canina (crema da cucina). Il risultato finale alimenta una buona linea di confetture e di prodotti sott’olio.
«Punto su questo segmento di lavorazione – spiega – perché garantisce un maggiore valore aggiunto». Non soltanto piante, ma anche animali. La sua piccola fattoria è diventata un rifugio: un paio di capre, quattro pecore, tre maialini vietnamiti (una varietà di compagnia), qualche gallina, un po’ di conigli. «Devo muovermi con prudenza – avverte – altrimenti mi arriva di tutto».
Gli altri scartano, lei accoglie. Gli asini Artù e Dory sono invece i protagonisti delle attività terapeutiche, assieme alla cagnolina Lily. Caterina ha infatti fondato da poco, con Anna Moretti e Fabiana Durisotti, l’associazione “Amaltea”, che come finalità adotta una serie di interventi assistiti con gli animali.
Ci sono altri progetti in itinere che riguardano tra l’altro la gestione di una fattoria didattica e sociale. Ma mette le mani avanti, per staccarsi da iniziative di tipo commerciale: «Per carità, niente inutili giochi gonfiabili che servono da parcheggio per i bambini. Niente musica a pieno volume».
Prende la sua Lily
in braccio e accarezzandola spiega la finalità di prossime sperimentazioni: «C’è tanto da fare per l’integrazione sociale di persone svantaggiate a causa di forme di disabilità». Sono le sensibilità nuove che crescono nei giovani in pace con se stessi.


 

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