Tra Bordano e
Madrisio: odissea di una famiglia bordanese
della prima metà del Novecento
In una terra di fortissima emigrazione sia stagionale che
definitiva come la nostra, era praticamente impossibile non avere almeno un
parente trasferitosi in qualche paese o città di altre zone della regione o
all’estero. Se infatti Bordano e Interneppo non attiravano lavoratori, altre
terre, magari più generose, sì. Senza andare oltre confine o comunque in luoghi
diversi per cultura e lingua, esiste nella famiglia di una mia bisnonna, Maria
Picco (conosciuta come Mie dal Briscjo),
classe 1890, madre di mia nonna Vilma Colomba e quindi suocera del nostro Ugo
Rossi, un caso di sentito legame verso una località del basso collinare, legame
che si è rinsaldato in varie occasioni, anche drammatiche.
Il luogo in
questione è il paese di Madrisio, al limite meridionale dell’anfiteatro
morenico e tra Rive d’Arcano e Fagagna, oggi in Comune di quest’ultima. Mie aveva degli zii sia qui che nella
stessa Fagagna, ma era proprio a Madrisio che si recava spesso. Partiva di
buonora da Bordano e a piedi in giornata raggiungeva questo villaggio per lavorare
nei terreni di famiglia. Questo accadeva soprattutto prima che si sposasse e
dunque prima del 17 febbraio 1917, in una terra fiaccata e dissanguata economicamente
e moralmente dalla Grande Guerra, durante la quale a Bordano letteralmente si
pativa la fame. E dire che non mancavano di certo gli appezzamenti di cui
prendersi cura tra la piana di Bordano, il Naruvint e il San Simeone. Insomma
di lavoro ce n’era anche troppo, erano i prodotti del lavoro ad essere molto
spesso insufficienti. Per questo possedere molti terreni non significava in
automatico avere lo stomaco pieno, tanto più se in casa si era rimasti da soli,
come dopo la morte prematura del marito di Mie,
Antonio Giacomo Colomba (n. 1889), il quale, una volta tornato dal fronte,
dovette soccombere nel ’21 a una fatale peritonite, lasciando Mie da sola con tre figli da crescere,
tra cui mia nonna Vilma.
A distanza di cent’anni in quel di Fagagna potremmo
ritrovare una discendente di quei nostri avi, la signora Graziella Picco,
figlia di un fratello di Mie, tale Lurinç, ricordato in famiglia per una
simpatica esclamazione che fece a Mie
una volta rientrato in patria dopo aver partecipato alla Guerra di Libia del
1911-’12. Disse “Mie, a son i arbui laù
veh, cu’ las cotolates”; i “arbui”
non sono gli alberi ma gli arabi. Probabilmente si riferiva ai senussi delle
varie tribù libiche che fiancheggiavano gli ottomani durante la guerra.
Il
secondo capitolo di vicende in cui Madrisio rappresentò, questa volta ancora di
più, una vera e propria ancora di salvezza si concretizzò nei terribili anni
della Seconda Guerra Mondiale, precisamente nell’estate del ’44. In seguito
all’attentato partigiano del 19 luglio a un gruppetto di tedeschi presso
l’osteria di fronte la chiesa di Bordano, che causò la morte di tre soldati
della Wermacht, il 21 dello stesso mese scattò la rappresaglia tedesca sul
paese, che portò all’incendio e alla distruzione di parte dell’abitato
(episodio così cruciale che sarà impossibile non dedicarne un articolo). Ma,
mentre “la maggior parte della popolazione si era già rifugiata nei paesi
vicini”, come scrisse proprio Ugo Rossi il 4 ottobre del ’45 in una lettera
allo zio Antonio Piazza, Mie si
trovava sola e indifesa nella sua casa di Palâr,
il borgo più occidentale e isolato del paese. Infatti uno dei figli, Giacomo,
era morto a Torino nel ’41, l’altro, Giovanni, non era ancora tornato dalla
guerra, mentre Vilma in quel periodo lavorava in una famiglia
“oltretagliamento”. La situazione era quanto mai pericolosa, in quanto un
tedesco col mitra spianato le intimava di uscire dalla casa urlando “Raus! Raus!”. Lei non capiva e comunque
non intendeva abbandonare i suoi averi. Avrebbe potuto finire male se un altro
tedesco, per costringerla ad allontanarsi, non avesse liberato le sue vacche.
Solo a quel punto si mosse e si diede a rincorrere gli animali, in quella
circostanza gli unici beni che le rimanevano, visto che la casa andò di lì a
poco incendiata. Senza praticamente più nulla, riemerse quella che
probabilmente era l’unica opzione fattibile in quel frangente, tornare a
Madrisio, ma questa volta come sfollata senza dimora. Anche Vilma trascorse del
tempo presso i parenti di Madrisio riunendosi a sua madre, mentre Giovanni
visse mesi ancora più travagliati.
Dopo aver passato circa un anno come
prigioniero di guerra a Berlino, lavorando in fabbrica sotto i bombardamenti
alleati, fu caricato su un treno diretto a Bergamo sul quale erano stati fatti
salire tutti coloro che erano considerati morituri; era sempre il ‘44.
Pensavano avesse la tubercolosi ed era arrivato a pesare 45 chili. Per fortuna
invece non era malato, tanto che, una volta tornato autonomamente in Friuli, anche
lui finì per giungere a Madrisio. Ma non era finita: mentre un giorno si
trovava a Udine, dopo esservi giunto col tram, fu di nuovo rastrellato dai
tedeschi (erano probabilmente i primi mesi del ’45), che lo fecero salire su un
treno per riportarlo, assieme a molti altri internati, in Germania. Ma questa
volta, memore delle sofferenze e delle privazioni subite nelle fabbriche
tedesche, tentò il tutto per tutto e scappò quando ancora il treno si trovava
in stazione, eludendo fortunosamente la vigilanza. Fu proprio lui nel
dopoguerra, durante la ricostruzione relativamente veloce di Bordano, a
riedificare la casa di Palâr,
mettendo di persona le solette che poi, circa un quarto di secolo dopo, faranno
persino fatica ad essere abbattute dagli escavatori che avevano il compito di
demolire le case percolanti dopo il terremoto. Se non ci fosse stata la
possibilità di appoggiarsi ai parenti di Madrisio ed entrare quindi anche nella
storia personale di quest’altro paesello, non so come se la sarebbe cavata
questa famiglia bordanese; avrebbe probabilmente scelto altri luoghi in cui
trovare protezione e lavoro, magari anche molto lontani. Questo articolo, in
vero molto legato a fatti specifici alla nostra famiglia, vuole anche ricordare
come le connessioni tra le storie dei paesi e delle sue genti vengano a crearsi
soprattutto in periodi di crisi, quando non è più sufficiente accontentarsi di
condurre la propria vita racchiusi nel proprio piccolo mondo ma bisogna fare
una scelta di sopravvivenza, spostandosi, cambiando abitudini, anche a rischio
di perdere quei pochi solidi pilastri sui quali si poggiava. Che sia per
lavoro, per una casa che non c’è più o per altri scherzi del destino e di una
storia più grande di noi, penso che ogni famiglia di Bordano e Interneppo abbia
uno o più altri paesi da ringraziare, in quella che era una sorta di rete
solidale delle comunità e che oggi ha cambiato volto, diventando un qualcosa di
più generalizzato ma anche scontato e superficiale.
Fonti principali:
Testimonianze orali di Vilma Colomba
Testimonianze orali di Oscar Rossi
Articolo “Como vuê. 70 anni fa l'incendio di Bordano”, Pieri
Stefanutti, blog “Alesso e dintorni”, 21 luglio 2014: http://cjalcor.blogspot.it/2014/07/como-vue-70-anni-fa-lincendio-di-bordano.html
Libro “Bordan e Tarnep: nons di int”, Velia Stefanutti, 1988
Un altra saga famigliare salvata dall'oblio e destinata ai posteri
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